Mosciano di Scandicci


Data: Sabato, 6 Giugno 1981;
Luogo: Mosciano di Scandicci, campagna di Roveta, lungo via dell'Arrigo in località Villabianca;
Orario: 22.30/23.00, secondo la testimonianza piuttosto incerta di un contadino che abitava a circa 200 metri in linea d'area dal luogo del delitto. L'uomo riferì di aver udito l'autoradio dell'automobile accesa fino alle ore 22.45 circa, poi più nulla;
Vittime: Giovanni Foggi, 30 anni; Carmela De Nuccio, 22 anni;
Automobile: Fiat Ritmo color rame, targata FI 986116;
Fase Lunare: Tre giorni dopo il novilunio (età lunare -25gg). Illuminazione al 16%. Il 6 giugno a Firenze la luna non ha avuto tramonto; tramonto che ha avuto luogo invece il 7 giugno alle ore 00:37.


Prima del delitto
Fidanzati da poco, ma già in odore di matrimonio, la sera del delitto, il trentenne di Pontassieve Giovanni Foggi e la ventunenne di origine salentine Carmela De Nuccio, cenarono a casa dei genitori di lei a Scandicci.
Uscirono verso le ore 22.15 con la scusa di andare a prendere un gelato e si appartarono sulle colline di Roveta non lontano dalla discoteca Anastacia, in una zona frequentata abitualmente da coppie e da guardoni.
Fu verosimilmente poco dopo il loro arrivo che si scatenò l'assalto da parte del killer.


Scena del crimine
Giovanni Foggi fu raggiunto da 3 colpi mortali d'arma da fuoco, mentre la De Nuccio venne raggiunta da 5 colpi altrettanto mortali d'arma da fuoco, quindi venne tirata fuori dalla macchina e portata a circa 12 metri di distanza su un terrapieno da dove il killer avrebbe verosimilmente potuto controllare i dintorni.
In quel luogo si verificò la prima escissione pubica nella storia di colui che a breve sarebbe diventato noto in tutta Italia come il Mostro di Firenze. Con un'arma bianca molto tagliente, l'assassino recise di netto i jeans della ragazza all'altezza del cavallo dei pantaloni, dunque esportò in maniera piuttosto precisa il vello pubico. Terminata l'operazione il killer tornò dal cadavere del ragazzo in macchina e lo colpì con alcune coltellate ampiamente post-mortem.
L'arma bianca, sia per quanto riguarda l'escissione che per quanto riguarda le coltellate, risulta adoperata da soggetto destrimane.


Dopo il delitto
I cadaveri vennero scoperti la mattina dopo, domenica 7 giugno verso le ore 9.00, da un poliziotto in borghese di nome Vittorio Sifone.
Partirono le indagini e il primo a essere interrogato dagli inquirenti fu tale Antonio Leone, ex fidanzato di Carmela, il quale portato in caserma assieme al fratello, fu quasi subito giudicato completamente estraneo al delitto e lasciato andare.
Il 9 giugno, appena tre giorni dopo il delitto, il giornalista Antonio Villoresi, parlò in un articolo de "La Nazione" delle numerose e inquietanti analogie fra l'omicidio di Scandicci e quello di Borgo San Lorenzo di 7 anni prima. Quello stesso giorno, le prime analisi sui bossoli rinvenuti sulle due scene del crimine confermarono ufficiosamente che a sparare era stata la stessa pistola, una Beretta Calibro 22, e probabilmente a impugnarla era stata la stessa mano. Nonostante a nessuno era ancora venuto in mente di collegare anche il delitto di Signa del 1968, si iniziò in quel momento a parlare per la prima volta e molto timidamente di Serial Killer. Il termine divenne di dominio pubblico dopo il delitto successivo.
Le indagini si indirizzarono quasi subito nel fitto sottobosco di guardoni che popolavano la zona del duplice omicidio; in particolar modo le attenzioni degli inquirenti si rivolsero verso tale Enzo Spalletti, 36 anni, sposato e padre di tre figli, autista di ambulanze presso la Misericordia di Montelupo Fiorentino e soprattutto noto guardone che bazzicava le campagne della Roveta, luogo dell'omicidio, e il poco distante bar-ristorante La Taverna Del Diavolo, in località Pian De' Cerri, risaputo ritrovo di guardoni.


Avvistamenti e segnalazioni: il caso Spalletti
A porre Enzo Spalletti al centro delle indagini furono verosimilmente due testimonianze disgiunte. La prima fu una telefonata anonima giunta alla questura di Firenze alle 22.30 di giovedí 11 giugno. Tale telefonata fu presa dal brigadiere Pietro Bittau: in essa un anonimo interlocutore affermava di aver visto la notte del delitto un'automobile Ford Taunus rossa, targata FI 669906, dalle parti della campagna di Roveta in orario compatibile con il delitto stesso.
Sempre lo stesso giorno, arrivó la seconda testimonianza: un tale di nome Guido Margheri, che la vulgata mostrologica indica come poliziotto, riferì alle forze dell'ordine che la sera di sabato 6 giugno, verso le 22.45, a bordo di una Fiat 500, aveva raggiunto il ristorante "La Cesira", distante pochi minuti di automobile dal luogo del delitto, e ivi si era intrattenuto per circa 15 minuti.
Verso le 23.00 era ripartito in direzione via dell'Arrigo e, superata la Taverna del Diavolo, aveva incrociato in via delle Croci un'automobile Ford Taunus color arancione, marciante in senso contrario al suo. La strada stretta aveva obbligato il predetto Guido a fermarsi per permettere il transito dell'altra vettura. Questa era un'automobile a lui familiare in quanto appartenente a un noto guardone di zona, dunque Guido fu in grado di fornire oltre al modello e al colore anche i primi numeri di targa.
Tale testimonianza venne confermata dai proprietari del ristorante "La Cesira", i quali riconobbero il Margheri come loro cliente abituale. I successivi riscontri portarono gli inquirenti a stabilire che l'incrocio fra le due automobili era avvenuto fra le 23.00 e le 23.30 a circa due chilometri di distanza dal luogo del delitto, verso cui stava viaggiando la Ford Taunus.
Nella giornata di giovedì 11 giugno, gli inquirenti si trovarono dunque due segnalazioni convergenti che indicavano una stessa vettura in prossimità del luogo del delitto in orario compatibile con lo stesso. Risultó a quel punto facile appurare che l'automobile segnalata era in entrambi i casi quella di Enzo Spalletti.
Soffermiamoci un attimo sulla telefonata anonima: come parte della odierna mostrologia sostiene, è probabile che chi abbia fatto quella telefonata conoscesse almeno di vista lo Spalletti, perché è difficile pensare a un perfetto sconosciuto che si fosse trovato a passare da Roveta e ivi avesse incrociato o visto l'automobile dello Spalletti e, pur senza sapere nulla di lui e del duplice omicidio, ne avesse memorizzato la targa per poi - saputo del delitto - riferirla a distanza di cinque giorni alla questura di Firenze.
Dunque è probabile che la fonte di tale telefonata fosse stata un altro guardone, una coppia o un abitante di una delle case prossime al luogo del delitto, se non lo stesso predetto Guido, qualcuno insomma che bazzicasse Roveta e avesse familiarità con l'automobile dello Spalletti, ne conoscesse la targa o quanto meno sapesse dove andare a recuperarla.

Il giorno successivo, venerdì 12 giugno, venne interrogata la moglie dello Spalletti, la signora Carla Agnoletti, la quale - a dispetto della vulgata mostrologica che spesso ha alterato le parole della donna - rilasciava le seguenti dichiarazioni:
▪ la sera del delitto il marito era uscito da solo verso le 21.30;
▪ lei era andata a letto verso l'una del mattino, a quell'ora il marito non era ancora rientrato; non era in grado di dire a che ora fosse rientrato;
▪ la mattina successiva (domenica) il marito non le aveva detto nulla del duplice omicidio commesso; l'uomo era uscito verso le 11.00 ed era andato al bar "Pinelli" al Turbone; era rientrato verso le 12.30 e solo allora le aveva parlato per la prima volta del delitto della sera precedente; le aveva raccontato che era stata uccisa una coppia dalle parti di Scandicci, che l'uomo era stato ucciso in macchina a colpi di pistola, mentre la donna era stata uccisa e portata a qualche metro di distanza dall'automobile; la Agnoletti non ricordava e dunque non riportava altri particolari del racconto del marito;
▪ marito e moglie avevano trascorso il pomeriggio della domenica insieme; il marito era poi uscito la sera, ma era tornato a casa molto prima del solito e non era stato fuori per più di un'ora;
▪ nei giorni successivi il marito si era mostrato di umore più cupo, come se il delitto lo avesse turbato; inoltre usciva meno spesso e dichiarava di voler far luce sul duplice omicidio;
▪ lei era a conoscenza dell'attività di guardone del marito;
▪ lei escludeva di aver appreso del delitto tramite TV, radio o giornali; ribadiva di averne avuto per la prima volta notizia dal marito all'ora di pranzo della domenica.

Ulteriori indagini portarono gli inquirenti a scoprire che già alle 11 della domanica mattina (orario in cui lo Spalletti si era recato al bar Pinelli), la notizia del duplice omicidio si era sommariamente sparsa per il paese e sul luogo dove erano stati rinvenuti i cadaveri vi era un discreto assembramento di persone, fra forze dell'ordine, giornalisti e semplici curiosi.
Una certa tradizione mostrologica, supportata da diversi articoli di giornale dell'epoca, vorrebbe che al bar lo Spalletti avesse riferito particolari come l'escissione del pube, particolari che solo chi fosse stato presente sul luogo del delitto, avrebbe potuto sapere. In realtà non c'è traccia documentale di tali dichiarazioni, tantomeno così circonstanziate, da parte dello Spalletti al bar.
Al contrario, c'è il verbale dell'interrogatorio della moglie, in cui - come visto - costei non solo non fa alcun riferimento al pube escisso, ma dichiara che il marito era uscito da casa la domenica mattina verso le 11 e fino a quel momento non aveva fatto cenno dell'avvenuto delitto. Potrebbe dunque essere presa in considerazione l'ipotesi che nel momento in cui lo Spalletti era uscito, ancora non sapesse nulla dell'omicidio e avesse appreso la notizia solo in seguito, per strada o nel bar stesso.

A ogni modo, quello stesso giorno, lo Spalletti venne portato in Procura e interrogato alla presenza dei due magistrati che si occupavano del caso, Silvia Della Monica e Adolfo Izzo, del commissario Sandro Federico e del colonnello Olinto Dell'Amico.
Inizialmente l'uomo si difese affermando di non sapere nulla del delitto, di non aver visto nulla e di aver riportato esclusivamente informazioni lette sui giornali, cosa impossibile in quanto tali dichiarazioni erano state rese quando la notizia del duplice omicidio non era stata ancora riportata da alcun giornale.
Nelle lunghe sei ore di interrogatorio che seguirono, Spalletti affermò dapprima in maniera del tutto inverosimile di essersi appartato in zona Roveta con una prostituta napoletana che aveva trovato a Firenze sul Lungarno Vespucci; in seguito, incalzato dalle pressanti domande degli inquirenti, ritrattò la storia della prostituta napoletana e dichiarò di essersi incontrato con un suo amico guardone, tale Fosco Fabbri, dalle parti della Taverna del Diavolo e ivi di essersi appostato con lui in attesa di una coppia da spiare. Accennó a un'automobile Ford Capri blu parcheggiata in zona che, disturbata dall'amico Fabbri, si era allontanata a gran velocità azionando una sirena bitonale. Affermó di essere rientrato a casa verso mezzanotte (orario che non coincideva con quanto dichiarato da sua moglie). Dichiarò, infine, che la zona del delitto non era propriamente frequentata da lui e dal Fabbri, in quanto loro preferivano appunto appostarsi nella campagna circostante la taverna, a circa un paio di chilometri di distanza dal luogo dell'omicidio.
Viste le reticenze e la comprovata menzogna sull'orario di rientro a casa, quella sera lo Spalletti venne arrestato per falsa testimonianza. La speranza degli inquirenti era che il carcere potesse convincerlo a raccontare finalmente ciò che sapeva, come lo avesse saputo ed eventualmente cosa avesse davvero visto.
Buona parte dell'odierna mostrologia ritiene che l'arresto dello Spalletti fu un errore, perché da un lato spinse i guardoni ad assumere un atteggiamento di estrema diffidenza verso le forze dell'ordine, anziché di collaborazione, dall'altro portò probabilmente Spalletti a rendersi conto di aver parlato troppo e in maniera maldestra e di aver così acceso i riflettori di inquirenti e media sull'oscuro mondo cui lui stesso apparteneva, quello dei guardoni, in special modo dei frequentatori della Roveta. Forse fu questo il motivo per cui da quel momento in poi l'uomo decise di trincerarsi dietro un assoluto silenzio.


Fosco Fabbri
Incarcerato Spalletti, gli inquirenti rivolsero le proprie attenzioni verso l'amico Fosco Fabbri, piccolo artigiano all'epoca quarantottenne di Montelupo. Personaggio interessante costui, guardone da lunga data, musicista presso la banda di paese, Fosco aveva un fratello, Mariano, impiegato nel Corpo Forestale presso la frazione di San Piero a Sieve, nel comune di Borgo San Lorenzo. A fine puramente cronachistico, giova ricordare che era da poco stato fatto il collegamento con il delitto di Rabatta (comune appunto di Borgo San Lorenzo) e che quattro anni dopo, nel 1985, in una cassetta postale di San Piero a Sieve sarebbe stata imbucata dal Mostro la famigerata lettera destinata alla dottoressa Della Monica (vedasi capitolo Scopeti).
Interrogato, il Fabbri confermò che la sera dell'omicidio era stato con lo Spalletti sulle colline antistanti la Taverna del Diavolo in attesa di una coppia e che era rincasato verso mezzanotte senza notare nulla di strano. Dichiarò anch'egli che il luogo del delitto non era da loro frequantato, ma più in generale non era frequentato da guardoni perché troppo aperto e dunque non offriva adeguati ripari per chi volesse spiare. Per ultimo ammise che in zona era tornato nei giorni successivi, su pressione dello stesso Spalletti per vedere se - sfruttando la loro esperienza di guardoni - potessero far qualcosa di utile per l'identificazione dell'assassino.
Fu durante i numerosi interrogatori cui venne sottoposto che il Fabbri rivelò un paio di particolari piuttosto interessanti per le indagini, qualcosa che in futuro avrebbe parecchio solleticato la fantasia di svariati mostrologi:
1. confermò la presenza, la notte del delitto, di una Ford Capri blu parcheggiata dalle parti della Taverna del Diavolo, con all'interno una coppia che, disturbata dai guardoni e in particolar modo dallo Spalletti, si era allontanata a gran velocità azionando una sirena. Piú volte, forse per ripicca, la suddetta automobile era quindi passata davanti alla Taverna con la sirena accesa. Da notare come per lo Spalletti l'automobile era stata disturbata dal Fabbri e per il Fabbri, invece, era accaduto l'esatto contrario.
2. dichiarò che all'incirca nel 1977, non molto distante dalla zona dell'omicidio, era stato avvicinato da un "uomo in divisa", alto e robusto, che, puntandogli un'arma da fuoco, gli aveva fatto una sorta di paternale su quanto fosse immorale la sua attività di guardone. Il Fabbri era stato poi lasciato libero dopo circa una mezz'oretta senza che gli fosse stato torto un capello. Non era stato in grado di chiarire quale tipo di divisa indossasse il misterioso uomo.

Nel frattempo, la vulgata mostrologica asserisce che durante il periodo di carcerazione dello Spalletti, sua moglie e suo fratello, Dino Spalletti, vennero fatti oggetto di alcune telefonate anonime in cui l'interlocutore con fare rassicurante li informava che presto il loro congiunto sarebbe stato scagionato. L'ignoto si raccomandava tuttavia di assicurarsi che lo Spalletti non parlasse e in un'occasione, secondo l'avvocato Filastò, con fare quasi paternalistico avrebbe affermato: "Cosa gli è venuto in mente a quel bischero di dire che aveva letto degli omicidi sui giornali? Ben gli sta un po' di carcere!"
Della reale esistenza di queste telefonate non risulta essere mai stato fornito alcun riscontro documentale. Tuttavia, qualche mese dopo, lo Spalletti venne effettivamente scagionato da un nuovo omicidio del MdF.
Ammettendo che tali telefonate fossero realmente avvenute, sarebbe interessante capirne l'origine. Molti mostrologi ritengono fossero opera del "Mostro" che, da un lato voleva assicurarsi il silenzio dello Spalletti con le buone maniere, dall'altro gli faceva comunque sapere di poter arrivare alla sua famiglia in qualsiasi momento. Non può, tuttavia, escludersi che provenissero dal gruppo di guardoni della Roveta, preoccupati che lo Spalletti potesse parlare e dunque accendere ancora piú i riflettori sul loro mondo, già messo duramente in subbuglio dalle forze dell'ordine. Non è un mistero, infatti, che l'ordine circolato fra i voyeur della zona, fosse l'assoluto silenzio. Lo stesso Dino Spalletti dichiarò di aver ricevuto il 16 giugno una telefonata dal Fabbri, il quale ribadiva quanto fosse importante che Enzo tacesse. Particolare questo sicuramente vero in quanto tale telefonata fu intercettata dall'autorità preposta.
Piccola nota a margine: la voce mostrologica secondo cui il testimone Guido Margheri fosse un poliziotto trae origine proprio da una delle suddette intercettazioni, allorché il Fabbri, parlando con Dino Spalletti, ipotizzó (erroneamente) che il Margheri appartenesse a qualche corpo di polizia.

Frattanto, con Enzo Spalletti in carcere, gli inquirenti continuarono a rimestare nel torbido mondo dei guardoni di zona, finendo per puntare le attenzioni fra gli altri su tale Carlo Tommasi, detto il Pastorino, guardiacaccia cinquantenne, che soleva recarsi a spiare le coppie armato di una pistola scacciacani.
Oltretutto che fra i guardoni circolassero armi è riportato anche da un articolo de "La Città" del 29 ottobre 1981 che rivelava come, qualche giorno dopo l'arresto dello Spalletti, nella campagna di Roveta lo stesso Fabbri avesse assistito a una furiosa lite fra guardoni durante la quale era stato appunto esploso un colpo di pistola. Avvicinatosi per capire cosa stesse succedendo, gli era stato intimato di farsi gli affari propri, altrimenti avrebbe fatto la fine dell'amico Spalletti.
Tuttavia, nel giro di qualche mese, il polverone sollevatosi attorno ai voyeur andó lentamente dissipandosi. Dapprima il Pastorino venne ben presto giudicato estraneo ai fatti, in seguito a scrivere la parola fine sul caso Spalletti fu - come dicevamo - un nuovo omicidio del MdF, compiuto il 22 ottobre 1981 a Travalle di Calenzano. Due giorni dopo, il 24 ottobre, Spalletti venne scarcerato dopo oltre quattro mesi di reclusione e pare che la scarcerazione arrivó appena prima che il detenuto fosse trasferito nel carcere di Arezzo. Fedele alla linea intrapresa, l'uomo seguitò nel suo mutismo. Sarà definitivamente prosciolto il 13 dicembre 1989 dalla cosiddetta Sentenza Rotella, di cui avremo ampiamente modo di discutere in seguito.
Da allora, almeno fino a oggi, lo Spalletti non ha mai parlato di ciò che ha visto la notte dell'omicidio di Mosciano, sempre ammesso abbia realmente visto qualcosa. Sarebbe interessante capire perché abbia trascorso quei quattro mesi di carcere (non propriamente pochini) in assoluto silenzio, senza cercare minimamente di collaborare con le forze dell'ordine, senza dire assolutamente nulla sulla vicenda, se non ripetere di essere innocente.
Pare che le sue ultime parole sull'argomento siano state tese a far ricadere la colpa dei delitti su qualcuno appartenente alle forze dell'ordine. La fonte di questa notizia è proprio il fautore dell'ipotesi "Mostro in divisa", l'avvocato Nino Filastò, cui ai tempi del Processo Pacciani, lo Spalletti avrebbe fatto privatamente dichiarazioni di questo tipo.
Risulta, a tal proposito, che già all'epoca del delitto, Enzo Spalletti ebbe modo di dire alla dottoressa Silvia Della Monica: "Voi lo sapete che io non sono l'assassino ma mi tenete dentro per proteggere qualcun altro". Alle proteste indignate della magistrata di fronte a queste gravi insinuazioni, l'uomo avrebbe quindi risposto bonariamente "dicevo così per dire".
A oggi, primo scorcio del 2020, Enzo Spalletti è vivo; Fosco Fabbri è morto nel giugno del 1996.


Il dottor B.
Come abbiamo testé visto, il coinvolgimento dello Spalletti e la sopraggiunta consapevolezza che la campagna di Roveta fosse il punto di ritrovo di numerosi guardoni portarono le forze dell'ordine a concentrare le loro attenzioni sul mondo ambiguo e semisconosciuto dei "voyeur", sospettando che qui il Mostro potesse trovare se non proprio complicità o protezione, almeno l'ambiente ideale in cui mimetizzarsi.
Furono numerosi i cosiddetti "Indiani" (così venivano chiamati i guardoni per la capacità di avvicinarsi alle automobili delle coppie strisciando sul terreno senza far rumore) ad essere attenzionati; fra questi vi erano personaggi insospettabili, come ben noti professionisti fiorentini, un vigile in pensione e persino qualche giovane donna.
In particolar modo fu un medico residente a Samminiatello, frazione di Montelupo Fiorentino, a finire sotto la lente d'ingrandimento delle forze dell'ordine e - suo malgrado - a salire ai disonori della cronaca. Si trattava di un quarantottenne ginecologo della Scandicci bene, il cui nome all'epoca non venne divulgato, ma che diventò noto alle cronache fiorentine come Dottor B. dopo alcuni articoli, farciti di non troppo velate accuse, che il giornalista Mario Spezi gli dedicó fra il 1982 e il 1983.
Ancora oggi sul nome del suddetto ginecologo ci sono pareri discordanti. Stando a una bellissima retrospettiva sul delitto di Mosciano curata dal ricercatore Francis Trinipet, il medico risponderebbe al nome di Luciano Bianconi, ma non esistono riscontri documentali a conferma. Più probabile invece che, come emerge dalla già citata sentenza Rotella e come evidenziato in un video su youtube degli amministratori del gruppo Facebook "I Mostri di Firenze", Dario Quaglia e Alessandro Flamini, il vero nome del ginecologo fosse un altro. In questa sede preferiamo ometterlo trattandosi di persona ancora in vita e ci limitiamo a riportare un suggerimento dato ormai parecchi anni fa dal mai troppo compianto studioso De Gothia, secondo cui tale medico avrebbe avuto "lo stesso cognome di un noto allenatore di calcio italiano degli anni '80, campione d'Italia in provincia, che chiuse la carriera all'Inter".
Indipendentemente dal nome, a questo punto piuttosto semplice da individuare, il ginecologo di Montelupo presentava caratteristiche estremamente interessanti, tanto da rimanere a lungo uno dei principali indiziati per i delitti del MdF. Si trattava infatti di persona celibe, che viveva solo con l'anziana madre, che era stato in cura per disturbi nervosi, detentore di una pistola Beretta calibro 22, il cui nome era emerso dal giro dei guardoni che gravitavano attorno a Roveta. Ad colorandum, come si scoprirà dopo il collegamento con il duplice omicidio di Signa del 1968, era il medico curante della famiglia di Francesco Vinci.
Tuttavia, sia le prove di sparo sulla Beretta del medico sia la perquisizione nella sua abitazione diedero esito negativo e i sospetti vennero momentaneamente accantonati, almeno fino al delitto successivo, quando, subito dopo il duplice omicidio di Calenzano nell'ottobre di quello stesso anno, il dottore subì una nuova perquisizione.
Successivamente, nell'estate del 1982, arrivò il collegamento con il delitto di Signa e i sardi che avevano gravitato attorno alla Locci si ritrovarono a essere i principali indiziati per i delitti del Mostro. Eppure il dottor B. non uscì completamente di scena. Fu anzi in quel periodo che lo Spezi concentrò i suoi sospetti su di lui, sostenendo in diversi articoli su "La Nazione" e nel suo libro "Il Mostro di Firenze" (edito da Sonzogno nel 1983) di aver individuato in lui l'autore degli omicidi.
Complice la scoperta che il ginecologo abitava nello stesso paese non solo del guardone Enzo Spalletti, ma anche e soprattutto di Francesco Vinci e che della famiglia Vinci era il medico curante, lo Spezi ipotizzò che il dottore potesse essere il mandante dei delitti e che Francesco Vinci (forse aiutato da qualcun altro) potesse esserne l'esecutore materiale. Già nel 1983 veniva dunque avanzata l'ipotesi di un mostro a più teste, quasi un'anteprima di quella che parecchi anni dopo sarebbe stata la pista dei Compagni di Merende.
Sarà in seguito lo stesso Spezi a lasciar cadere le sue accuse nei confronti del ginecologo per concentrarsi sulla cosiddetta "Teoria Carlo", di cui avremo modo di parlare in un successivo capitolo.
Negli anni seguenti e fino al termine della scia delittuosa, il dottor B. verrà comunque regolarmente sottoposto a controlli e perquisizioni dopo ogni delitto del Mostro. Anche subito dopo la scoperta dell'ultimo duplice omicidio, a Scopeti il 9 settembre 1985, come ci fa sapere l'avvocato Bevacqua durante un'udienza del Processo Pacciani, una pattuglia si recò prontamente a casa del ginecologo a Montelupo per raccogliere informazioni sui suoi spostamenti.

L'interesse degli inquirenti verso il mondo dei guardoni si sarebbe peró raffreddato in breve tempo e le forze dell'ordine si sarebbero presto convinte di dover cercare il Mostro altrove. Come ebbe modo di spiegare il dirigente della SAM (Squadra Anti Mostro), Sandro Federico, nella trasmissione Telefono Giallo andata in onda nel 1987, i guardoni non avevano alcun interesse a proteggere il MdF, anzi avevano tutto l'interesse che questi non colpisse, sia perché il MdF rappresentava un pericolo anche per loro nel caso malauguratamente avessero visto qualcosa, sia perché la sua presenza limitava fortemente il numero delle coppie che si appartava nelle campagne fiorentine. Addirittura, in quella stessa trasmissione Federico riferiva che i guardoni si ritenevano le sentinelle delle coppie, la miglior difesa nei confronti del Mostro.
A dispetto di quanto sostenuto dal dottor Federico, nei vari salotti mostrologici si è spesso dibattuto se il MdF fosse stato o meno in precedenza un guardone o se più in generale provenisse da quel mondo. Sicuramente ci sono delle similitudini fra il comportamento del Mostro e quello dei guardoni, come ad esempio la condivisione e profonda conoscenza di determinati luoghi graditi alle coppie o il sapersi muovere abilmente nel buio della campagna e avvicinarsi alle macchine senza fare il minimo rumore. Similitudini che in seguito saranno rese ancora più marcate dalle condanne dei Compagni di Merende, considerando che almeno Pacciani e Lotti erano due guardoni, il primo chiamato in causa da alcune testimonianze, il secondo per propria stessa ammissione.
Ci sono però anche profonde differenze che sembrano ostacolare un'estrazione voyeuristica del mostro: su tutte, il guardone traeva e trae piacere nell'assistere al compimento del rapporto sessuale della coppia, il MdF interrompeva o - meglio ancora - impediva tale rapporto. E questa appare un'insanabile dicotomia fra le due parti.


Particolarità a Mosciano
● La pistola con cui vennero freddate le vittime era la solita Beretta Calibro 22 Long Rifle che aveva già sparato sicuramente almeno a Rabatta. I proiettili usati per questo delitto furono Winchester a piombo nudo con impresso sul fondello la solita lettera H. Da qui in poi il killer utilizzerà esclusivamente proiettili a piombo nudo (con l'unica eccezione di un singolo colpo sparato a Giogoli), mentre nei due delitti precedenti erano stati usati proiettili a palla ramata. In questa occasione, dunque, il killer attinse per la prima volta a una seconda scatola di cartucce, anche questa, come la precedente, prodotta attorno al 1966.
● Le due vittime furono raggiunte da 8 colpi d'arma da fuoco in totale (3 lui, 5 lei), ma i bossoli trovati sul luogo del delitto furono soltanto 5. Un particolare quello dei bossoli mancanti che si era già riscontrato nel 1974 (pur con le scusanti del caso) e che si ripeterà nel 1983 e nel 1984. La faccenda dei bossoli mancanti rispetto ai colpi effettivamente esplosi ha fatto nascere la teoria – non ulteriormente suffragata e dagli esperti giudicata poco attendibile - secondo cui il o i MdF usassero due pistole, una delle quali automatica (dunque che non rilasciava bossoli).
● La povera Carmela De Nuccio venne ritrovata con gli occhi sbarrati e la parte anteriore della collana che portava al collo fra le labbra. Secondo alcune ricostruzioni, la collana le era scivolata n bocca nel momento in cui il killer l'aveva presa di peso e portata sul luogo dove poi aveva effettuato le escissioni (ricostruzione che sembrerebbe corretta nel caso in cui l'assassino l'avesse sollevata e caricata di peso su una spalla e dunque la De Nuccio si fosse ritrovata con la testa penzoloni e la collana le fosse ricaduta verso il volto).
Tuttavia il poliziotto Ruggero Perugini ha sempre dichiarato (sia al Processo Pacciani, sia recentemente in uno speciale sul MdF andato in onda su Canale 9) che a suo parere quella collanina fu infilata appositamente dall'assassino fra le labbra della ragazza in modo da richiamare l'immagine di un frammento della "Primavera del Botticelli", una cui copia era stata ritrovata e sequestrata diversi anni dopo a casa di Pietro Pacciani.


● A proposito del Pacciani, secondo le testimonianze raccolte dalla Procura di Firenze, la sua ex fidanzata, Miranda Bugli, nel giugno del 1981 viveva in via Donizetti a Scandicci e lavorava nella locale Casa del Popolo, distante meno di 5 km da via dell'Arrigo.
Abbiamo già avuto modo di vedere a proposito del delitto di Signa che - secondo la Procura - Pacciani colpiva in talune occasioni in prossimità dei luoghi frequentati dalla Bugli.
Fino a quel momento c'erano stati difatti tre delitti: nel primo le vittime risiedevano a poca distanza dall'abitazione della Bugli; nel secondo, il luogo del delitto era vicinissimo alle zone in cui Pacciani era nato e dove aveva vissuto per quasi cinquant'anni; nel terzo la Bugli lavorava a poca distanza dal luogo del delitto.
● L'asportazione del vello pubico della povera Carmela comincia – come da dichiarazioni del dottor Mauro Maurri al Processo Pacciani – fra le ore 11 e le ore 12 di un ipotetico orologio e termina nello stesso punto poco più in basso.
● A differenza del delitto di 7 anni prima, questa volta il killer non aveva sprecato colpi, puntando da subito al bersaglio grosso, e non aveva avuto bisogno dell'arma bianca per finire le vittime. Si evidenzia dunque un utilizzo più sicuro dell'arma da fuoco. Come detto, il criminologo Francesco De Fazio parlò, durante un'udienza del Processo Pacciani, di un killer migliorato negli anni nell'uso della pistola, ma non un cosiddetto "tiratore di professione". Questo contrasta con alcune teorie che vogliono il killer appartenente a un corpo militare o comunque molto vicino ad ambienti polizieschi. Lo stesso De Fazio affermò nella stessa occasione che il killer aveva invece una buona manualità con l'arma bianca, dunque era senz'altro più avvezzo all'uso del coltello rispetto alla pistola. Il che più che a un "uomo in divisa" potrebbe far pensare a un macellaio, un conciatore, un imbalsamatore, un calzolaio, persino un chirurgo.
● Da notare come gli ultimi due delitti (1974 e 1981) avvennero in un luogo decisamente isolato ma comunque molto prossimo a un punto di ritrovo per giovani: la discoteca Teen Club per il delitto di Borgo e la discoteca Anastacia per il delitto di Mosciano.
● Come quella della Pettini, anche la borsa della De Nuccio venne trafugata e il contenuto sparso per terra vicino alla macchina. Tuttavia, questa volta la borsa venne lasciata sulla scena del crimine e degli effetti personali della ragazza non è dato sapere se mancasse qualcosa o meno. Ciò che non fu mai ritrovato fu un portafoglio di marca Gucci di Carmela, ma anche in questo caso non è dato sapere se fu sottratto dal killer.
Va detto però che secondo la deposizione di Vittorio Sifone al Processo Pacciani (27 aprile 1994), la sensazione che lui ebbe quando scoprì i cadaveri fu che la ragazza avesse scagliato lei stessa la borsa contro il killer come in atteggiamento di reazione o di difesa.
● Sempre durante il Processo Pacciani, lo stesso Sifone affermò di aver notato erba schiacciata dovuta a tracce di trascinamento dalla macchina al luogo in cui poi fu trovato il cadavere di Carmela. Al contrario, il dottor Mauro Maurri dichiarò, avendo analizzato vestiti e assenza di escoriazioni da trascinamento sul corpo della ragazza, che verosimilmente il cadavere fu sollevato e portato a braccio. Identica osservazione la fece il dottor Aurelio Bonelli, l'unico medico legale a essere intervenuto direttamente sul luogo del delitto, il quale testimoniò con una certa sicurezza che a suo parere la ragazza non era stata trascinata ma portata di peso. A conferma delle considerazioni espresse dai medici legali (ove mai ce ne fosse bisogno), non risulta siano state rivenute tracce di fango sul corpo o sui vestiti della ragazza nonostante il giorno precedente a quello del delitto fosse stato discretamente piovoso.
● Le due vittime maschili dei due delitti, Giovanni Foggi e Pasquale Gentilcore, erano entrambi di Pontassieve. Si indagò dunque per prima cosa in questo senso (amicizie comuni, collegamenti con Pontassieve) senza però arrivare a nulla.
● Mentre Stefania Pettini era completamente nuda, Carmela De Nuccio era completamente vestita, a parte il taglio dei jeans eseguito con un colpo netto di coltello che aveva reciso cintura e tessuto. Questo ha portato molti ad affermare che l'assassino si fosse rifiutato di toccare con le proprie mani la ragazza come per una sorta di repulsione nei confronti di essa in quanto donna. Questa idea però non tiene conto che l'assassino aveva comunque estratto la ragazza dalla macchina e portata di peso per 12 metri fino al luogo dell'escissione. Probabilmente, dunque, il coltello era il modo più semplice e veloce per scoprirle il pube.
● I 12 metri di distanza fra automobile e luogo di ritrovamento del cadavere di Carmela rappresentano la distanza maggiore che si sia mai registrata in un delitto compiuto dal MdF. Mai prima di allora e mai dopo, il killer avrebbe trasportato o trascinato un cadavere così lontano. Sicuramente la costituzione molto minuta della De Nuccio ha agevolato il trasporto, ma in maniera più probabile possiamo affermare che la conformazione fisica del luogo e il fatto che fosse frequentato da guardoni, avesse obbligato il killer a cercare una posizione strategica per operare al meglio e contemporaneamente tenere i dintorni sotto controllo.
● Giovanni Foggi venne ritrovato semivestito. Aveva indosso gli slip e solo una gamba dei pantaloni infilata. Secondo la tesi ufficiale si stava svestendo, in linea con la dinamica dell'omicidio in cui i due giovani sembrano completamente colti di sorpresa. Esiste però una tesi mostrologica secondo cui il giovane si era accorto della presenza di un estraneo o comunque di qualcosa che non andava e si stava velocemente rivestendo. Ancor più radicale l'avvocato Nino Filastò che, in accordo con la sua visione di "mostro in divisa", nel suo libro "Storia Delle Merende Infami", spiega come gli spari in realtà avessero colpito il Foggi mentre si stava infilando i pantaloni. La gamba destra infatti risultava vestita fino a metà gluteo e questo in genere accade mentre ci si infila i pantaloni (al contrario, togliendoseli, si tende a scoprire i glutei contemporaneamente, tanto più da seduti in un'automobile). Considerando anche che il rapporto fra i due ragazzi non era stato ancora consumato, Filastò desume che qualcuno li aveva interrotti e li aveva invitati a rivestirsi. E questo qualcuno non poteva essere altri che un uomo in divisa, magari lo stesso che aveva incontrato tempo prima il Fabbri, un'autorità che si era presentato con il fare rassicurante di chi fa rispettare la legge per poi colpire quando le vittime meno se lo aspettavano.
● Strettamente connesso con il punto precedente, sul cruscotto della macchina venne rinvenuto il portafoglio del Foggi. A parere dei cosiddetti Filastoniani, una volta di più questo particolare dimostrerebbe l'evidenza di un "mostro in divisa" che, prima di colpire, aveva chiesto i documenti ai ragazzi. C'è però da dire che il Foggi venne identificato immediatamente dai primi due poliziotti giunti sul posto e questo potrebbe essere il motivo per cui il suo portafogli sarebbe stato rinvenuto sul cruscotto.
● La giovane coppia Foggi-De Nuccio era solita frequentare la campagna di Roveta per assaporare i propri momenti di intimità. Questo sembra essere accertato dalle testimonianze di alcuni guardoni che anzi consideravano l'automobile del Foggi una di quelle particolarmente gradite a quel particolare e non richiesto pubblico. Sempre dalle testimonianze dei guardoni, in special modo dello Spalletti, pare che il sabato prima del duplice omicidio, e dunque il 30 maggio, la Fiat Ritmo del Foggi fosse stata vista abbandonare di gran carriera il luogo in cui si erano appartati, poco distante da quello dell'omicidio scelto il sabato successivo. Questo ha portato diversi mostrologi a ipotizzare che la coppia fosse stata disturbata da qualcuno in quell'occasione, forse dal Mostro stesso. Sicuramente lo spavento che presero, ammesso che di spavento si fosse trattato, non deve essere però stato tale da impedir loro di appartarsi nella stessa zona a una settimana di distanza.
● Abbiamo visto come il guardone Enzo Spalletti abitasse nello stesso paese di Francesco Vinci; ci troviamo dunque al terzo delitto su tre che avviene in un luogo nelle cui vicinanze viveva o era di passaggio il Vinci.
● A proposito di guardoni, il Febbraio 1986 uscì, fra l'indifferenza generale, nella sale cinematografiche un film dal titolo "L'assassino è ancora fra noi" per la regia di Camillo Teti, inspirato alle vicende del Mostro di Firenze. Parte del film tratta con discreto dettaglio il mondo dei guardoni che ruotava attorno alla campagna di Roveta e alla Taverna del Diavolo, nonché i misteriosi (e talvolta molto borghesi) personaggi che frequentavano tale mondo.


Mostrologia a Mosciano
Sono ovviamente nate numerose teorie su cosa abbia realmente visto Enzo Spalletti la notte del delitto. Di seguito le ipotesi avanzate:

Ipotesi N° 1: la più semplice. Spalletti non vide nulla. Non ha mai parlato e tuttora, a distanza di quasi quarant'anni dall'omicidio, non parla perché semplicemente non sa nulla. Non vide neanche i cadaveri quella notte. Apprese del delitto la mattina successiva mentre si dirigeva al bar oppure nel bar stesso. Tornò a casa e ne parlò per la prima volta alla moglie.
Tale ipotesi non presenta particolari incongruenze e spiega anche eventuali dichiarazioni ambigue dello stesso Spalletti (vedasi riferimento alle forze dell'ordine), in quanto potevano benissimo essere voci che aveva colto da chi gli aveva passato informazioni sull'avvenuto omicidio (o magari era rimasto semplicemente colpito dal racconto del suo amico Fosco Fabbri).
Unica controindicazione, ci si potrebbe chiedere perché lo Spalletti si sia fatto diversi mesi di carcere senza mai dire questa semplice verità, dando al contrario l'impressione di sapere effettivamente qualcosa, andando a complicare la sua situazione e dando ragione a chi lo accusava di reticenza.

Ipotesi N° 2: Spalletti potrebbe essere arrivato sulla scena del crimine ad omicidio compiuto, dopo essersi separato dall'amico Fabbri. Nel caso, avrebbe curiosato nella zona, scoperto i cadaveri, visto le escissioni. Sarebbe tornato a casa molto tardi e il giorno dopo avrebbe parlato prima al bar e poi alla moglie.
Tale ipotesi è in linea sia con l'automobile dello Spalletti vista dal Margheri dirigersi verso il luogo dell'omicidio in un orario in cui lo stesso sembrava già essersi compiuto, sia col fatto che Enzo Spalletti non mostrò di avere paura quando fece i suoi racconti: il suo non fu infatti l'atteggiamento di una persona spaventata dagli eventi o minacciata, ma di una persona che si vantava di sapere. In tal caso ci sarebbe, tuttavia, da chiedersi perché non ne parló alla moglie la domenica mattina ma solo dopo essere tornato a casa per pranzo.

Ipotesi N° 3: Lo Spalletti vide qualcosa da lontano, forse udì gli spari, notò strani movimenti nel buio, senza riuscire bene a capire chi fosse in azione, né a identificare qualcuno. Si accorse però che stava accadendo qualcosa di molto grave e rimase ben nascosto dove era. Si avvicinò al luogo del delitto solo dopo esser stato ben certo che l'assassino si fosse allontanato. Non parlò con gli inquirenti perché, divenuto ormai il suo nome di dominio pubblico e sbandierato dagli organi di stampa come testimone oculare, temeva che il killer potesse prendersela con lui o con la sua famiglia. Preferì quindi trincerarsi nel silenzio più assoluto, facendo indirettamente capire al killer che non aveva nulla da temere.
C'è da chiedersi, qualora questa ipotesi sia valida, perché invece lo Spalletti ne aveva parlato con la moglie con tanta faciloneria? Non sarebbe stato più logico tacere per paura dell'ignoto assassino? E soprattutto c'è da chiedersi perché a distanza di tanti anni ancora non parla? Non sarebbe meglio per lui togliersi questo peso dalla coscienza? Che abbia ancora paura? Dopo quasi quarant'anni e dopo l'eventuale morte del MdF?

Ipotesi N° 4: Ipotesi collegata alla precedente con una importante variazione: lo Spalletti vide il killer, magari sapeva persino chi fosse o comunque sapeva che si trattava di un personaggio importante, forse un appartenente alle forze dell'ordine come sembra si sia lasciato sfuggire, e dunque temeva pesanti ritorsioni contro di lui e la sua famiglia. Questo fu ciò che lo spinse a tacere e negare ogni evidenza.
Anche qui dobbiamo però evidenziare gli stessi dubbi del punto precedente: perché con la moglie si era vantato di sapere qualcosa? Non aveva paura (tanto più se aveva visto un "uomo in divisa") dell'assassino? E se davvero non aveva paura, perché allora non dichiarò almeno alla moglie di aver visto un poliziotto o affine, vanteria che avrebbe fatto sicuramente colpo? E poi perché ancora oggi non parla? Teme forse ritorsioni da parte di ambienti deviati?

Ipotesi N° 5: Anche questo punto è legato all'ipotesi numero 3: Enzo Spalletti vide più persone sulla scena del crimine, forse poteva contribuire a indentificarne qualcuna ma credeva che la ragnatela dei killers fosse così fitta e vasta da temere per l'incolumità sua e della propria famiglia. Per questo decise dunque di tacere e negare ogni evidenza.
Anche qui ci sono però gli stessi dubbi dei due punti precedenti, forse ancora più accentuati: non doveva essere molto spaventato da quanto visto? Oltretutto, sapendo che gli autori coinvolti erano più di uno, non avrebbe dovuto rimanere in silenzio?

Ipotesi N° 6: Enzo Spalletti coprì all'epoca e copre tuttora in maniera volontaria l'autore dell'omicidio: o perché lo conosceva e magari era stato proprio lui a dargli la dritta di un posto dove trovare coppiette appartate oppure perché lo ricattava. L'idea della conoscenza appare più verosimile del ricatto e in questo senso potrebbero spiegarsi le telefonate anonime arrivate in famiglia che avrebbero avuto un tono confidenziale. In questo senso potrebbe pure spiegarsi perché ancora oggi lo Spalletti non parli. Lui, direttamente o indirettamente, è complice. Quindi DEVE tacere assolutamente.

Soffermandoci un attimo sulle sei ipotesi descritte, risulta evidente da queste brevi considerazioni che le ipotesi 3, 4 e 5 difficilmente possano essere considerate valide ancora oggi a distanza di tanto tempo.
Le ipotesi 1 e 2 (Spalletti non vide nulla), molto simili fra loro, rimangono dunque le più probabili. Per quanto detto, il fatto che la mattina della domenica non fece alcun cenno dell'avvenimento alla moglie, mentre ne parló a pranzo, sembra molto più probabile l'ipotesi 1.
Una certa probabilità ce l'ha anche l'ipotesi 6, che però comporterebbe uno Spalletti complice di un delitto (e quindi indirettamente di tutti gli altri delitti) così atroce. Possibile, certo, ma decisamente più difficile.


Teoria De Gothia sul film MANIAC
Il già citato dottor Stefano Galastri, meglio noto con il nickname De Gothia, per molti versi padre dell'odierna mostrologia e punto di riferimento per chiunque si sia cimentato nella comprensione di questo difficile caso, ha elaborato una sua teoria sulla genesi del delitto di Mosciano, delitto che poi diede il via alla scia di sangue degli anni '80.
Tale teoria fu espressa la prima volta nel 1994 in uno scritto dal titolo "Il sentiero non battuto: Attraverso gli anelli di 12 scuri"; scritto che fu inviato all'avvocato Filastò, al quale piacque particolarmente tant'è che in occasione del Processo ai CdM chiese alla corte di produrlo agli atti (la richiesta venne respinta).
In seguito, lo stesso De Gothia rivisitò la sua opera e nel 2004 pubblicò una versione aggiornata dal titolo: "Maniac attraverso gli anelli di dodici scuri".
In sintesi, De Gothia racconta come nelle settimane precedenti al duplice omicidio di Mosciano, sulle tv private fiorentine passava con insistenza il trailer del film "MANIAC", horror-slasher americano del 1980, il cui protagonista era appunto un maniaco omicida che era solito fare lo scalpo alle vittime femminili. La scena principe del trailer era l'assalto del killer a una coppia appartata in auto. Secondo De Gothia era così fitto il passaggio di questa anteprima cinematografica a qualsiasi ora del giorno o della notte, da far persino nascere fra i giovani fiorentini dell'epoca modi di dire inerenti al trailer. Questa visione può aver fortemente influenzato la mente di per sé labile di colui che già aveva ucciso una o forse due coppie in passato (forse nel '68, sicuramente nel '74), portando l'omicida alla deriva seriale degli anni '80.
Il trailer, stando allo scritto di De Gothia, smise improvvisamente di essere mandato in onda.
Il film, dal canto suo, fu proiettato a Firenze dal 28 agosto al 2 settembre 1981 presso il Supercinema. Successivamente tornò in proiezione presso lo stesso cinema dal 15 al 22 ottobre 1981, curiosamente (o forse no!) negli stessi giorni del secondo delitto del 1981, quello di Calenzano. L'autore lascia intendere che la visione del film in quei giorni di ottobre potrebbe aver spinto il MdF a colpire per la seconda volta in quell'anno, ad appena quattro mesi di distanza dal precedente duplice omicidio.
La cosiddetta teoria "Maniac" è stata a lungo uno dei cavalli di battaglia dell'avvocato Filastò, tuttora convinto che la visione di alcuni film usciti nelle sale cinematografiche negli stessi giorni dei delitti del mostro abbia fortemente influenzato gli omicidi stessi.


11 commenti:

  1. Complimenti per tutto il lavoro. Volevo soltanto sapere una cosa. Come è possibile che l'uomo che riferì di aver udito l'autoradio dell'automobile accesa fino alle ore 22.45 circa e poi più nulla non ha udito i colpi di pistola? Grazie

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    1. Ciao, grazie per i complimenti.
      La testimonianza dell'uomo che sentì l'autoradio fino alle 22.45 è - come riportato - molto incerta. Una certa vulgata mostrologica la dà per veritiera, sostenendo persino che la canzone che girasse prima del silenzio fosse "Imagine", ma a livello documentale è una testimonianza che non risulta.
      Alla fine l'orario del delitto viene desunto più che altro dal fatto che i due giovani avrebbero dovuto rincasare piuttosto presto. Arrivarono alla piazzola attorno alle 22.30 senza dunque potersi trattenere molto. Risulta molto probabile che l'assalto sia avvenuto entro massimo una mezz'ora dal loro arrivo. Più realisticamente entro pochi minuti.

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    2. Ma, ad ogni modo, nessuno ha udito degli spari?

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    3. No, in questo caso non esiste alcun riscontro sui colpi di pistola.

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  2. L'ipotesi di un appartenente alle forze dell'ordine, specialmente con il delitto di Mosciano e le dichiarazioni dello Spalletti, appare molto plausibile: il poliziotto Guido che percorre via degli Arrighi in concomitanza con il delitto, la sua 500 (modello sempre presente anche agli Scopeti e attribuita a Pacciani), l'incrocio con lo Spalletti che conosceva, la telefonata anonima alla questura di Firenze...Chi è questo polizziotto Guido che si premura di rilasciare testimonianza sapendo che lo Spalletti lo ha visto e parla?

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    1. il mostro secondo me e' uno che ha sofferto moltissimo per amore .

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    2. È una triste storia......Ho dei forti dubbi che si tratti solamente di questi tre individui.Chissa' quanta gente c'è dietro.....😪😪😱🤦

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    3. Comunque Guido non era un poliziotto, è stato detto e ridetto più volte. E questo fa cadere qualsiasi complottismo alla Filastò!

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  3. i compagni di merende ,,,, ridicolo chi li ha indagati .

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  4. il vero mostro e' una persona sola e stop! questa la mia teoria ,uno che ha tanto sofferto per amore lasciato dalla fidanzata , il primo delitto non centra niente con quelli a partire dal 74 , questo stronxo ha trovato la pistola durante le ricerche dell'arma la tenuta nascosta e poi messa in azione anni dopo. sardi e compagni di merenda non centrano una mazza!

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  5. Il mostro e' una sola persona ma quali feticci e sette e dottori, uccide per appagare se stesso ,oramai credo morto e sepolto.

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