Il farmacista


Il dottor Francesco Calamandrei è stato l'unico imputato al Processo contro i presunti mandanti dei delitti del Mostro di Firenze.
Nato il 27 Agosto 1941, proveniente da ottima e benestante famiglia, fu amico di infanzia di Giulio Zucconi, il ginecologo di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo.
Amico dai tempi dell'università anche del giornalista Mario Spezi, con cui aveva condiviso movimentate serate all'insegna della goliardia. Fu lo stesso Spezi a raccontare in un articolo sul settimanale "Panorama" della loro conoscenza:
"Lo conobbi, credo, nel 1967, io studente di legge fuori sede, lui studente di farmacia. Fu la goliardia. Francesco era intelligente, spiritoso al limite del cinismo, un vero fiorentino. Si organizzavano belle cene e una fu a Montespertoli. Eravamo in tanti. Appuntamento sotto la farmacia di San Casciano, cinque o sei auto. Qualcuno dice: "Perché non portiamo anche Torsolo, che ci fa ridere?". Fu portato Torsolo, il "grullo" del villaggio, Mario Vanni, l'inventore (molto più tardi) dell'espressione "compagni di merende". Vanni arrivò con tanto di bandiera italiana, saluto fascista, "eja eja alalaà e torneremo!". Molti anni dopo Vanni ripeté il suo numero davanti alla Corte d'assise, ma non ricevette lo stesso successo. Fu espulso dall'aula e condannato all'ergastolo. Intanto la goliardia era finita. Francesco si sposò nel 1969. E, come a volte accade, sparì. Non lo vidi per quasi 20 anni. Lui, credo, stava in farmacia; io divenni giornalista..."
All'università il Calamandrei conobbe anche il Sertoli, un altro poi rientrato nel giro dei sospettati. Ereditò la farmacia nel cuore di San Casciano che era stata del padre e del nonno. Nel 1969 si sposò con la signora Mariella Ciulli, la coppia ebbe due figli, Francesca e Marco. Non fu probabilmente un matrimonio felice: lui era affetto da sindrome di disturbo bipolare, lei aveva sofferto sin dalla più tenera età di vari disturbi psicologici. Si separarono nel 1985. Il divorzio acuì probabilmente l'instabilità mentale della signora Ciulli.
Rancorosa nei confronti del marito e ossessionata dalla vicenda del Mostro di Firenze, la donna lentamente cominciò a sovrapporre le due figure nella sua mente, intraprendendo un percorso irreversibile di allontanamento dalla realtà. Fra gli appunti della psicoterapeuta che l'aveva in cura, la dottoressa Adima Ringressi, è possibile leggere l'evoluzione della malattia della povera Mariella Ciulli.
Scrisse sempre lo Spezi a tal proposito nello stesso predetto articolo: "...Nei primi anni Novanta, per caso, incontrai di nuovo Calamandrei. Era un altro uomo: depresso, stanco, amareggiato. La vita lo aveva colpito duramente. La moglie si era ammalata: schizofrenia. Era arrivato a denunciare lui come mostro di Firenze e altri di altre orribili faccende. Avevano svolto accertamenti, non era risultato niente. Lei fu internata e interdetta. Lui non lo rividi per molti anni, fino al gennaio scorso..."


Le accuse della moglie
Tre anni dopo la separazione, nel 1988, l'ex signora Calamandrei si recò presso la stazione dei carabinieri di San Casciano dove riferì di aver visto anni prima il marito con una pistola beretta e di aver trovato in un frigorifero di casa i feticci strappati alle vittime del mostro di Firenze. Furono immediatamente effettuati controlli e perquisizioni in casa Calamandrei, ma non fu rinvenuto nulla di particolarmente indicativo per le indagini. Sul momento la faccenda sembrò finire lì.
La donna però non si rassegnò. Nonostante le fosse stata diagnosticata una psicosi schizoaffettiva di tipo depressivo, continuò la sua battaglia per consegnare alla giustizia il suo ex marito mostro. Contattò più volte Renzo Rontini, il padre della povera Pia uccisa a Vicchio nel 1984, raccontandogli con precisione e dovizia di particolari le sue convinzioni e le prove che aveva raccolto. A quanto riferisce nell'udienza del 5 febbraio 2008 del Processo Calamandrei l'avvocato Patrizio Pellegrini, parte civile per i coniugi Rontini, lo stesso Renzo non ritenne attendibili le accuse della Ciulli, pregandola di rivolgersi al dottor Ruggero Perugini, all'epoca a capo della SAM (Squadra Anti Mostro). Perugini, a sua volta, in un'epoca di mitomani e delazioni, non credette a una singola parola di quanto sosteneva la donna.
La Ciulli non si perse d'animo e divenne presenza fissa nei locali della SAM, ove soleva ripetere con pazienza le solite accuse.
Il 21 Marzo 1991, si presentò alla questura di Firenze dove rese alcune dichiarazioni inerenti al delitto del 1968 a Signa in cui furono uccisi la Locci e il Lo Bianco.
La donna dichiarò che la notte del duplice omicidio, lei e l'allora suo fidanzato Francesco Calamandrei, rientrando da una cena, passarono proprio dal luogo del delitto udendo gli spari. Terminata l'azione omicidiaria, si fermarono a curiosare e notarono un bambino (ovviamente Natalino Mele, NdA) che il marito accompagnò a casa del De Felice. Il giorno dopo lei e il Calamandrei tornarono sul luogo del delitto, il farmacista curiosò attorno alla macchina e raccolse qualcosa da terra che subito nascose. La donna aggiunse che Francesco Calamandrei era possessore di una pistola ereditata dal padre di cui si disfece il giorno dopo il delitto degli Scopeti buttandola a mare da Punta Ala.
Nell'aprile del 1991, la Ciulli ribadiva queste accuse negli uffici della SAM. Come si appura dal blog "Quattro Cose Sul Mostro", fu inviato un rapporto dalla SAM stessa al Procuratore Pier Luigi Vigna in cui era riportato:
"In data 11.04.1991 la Ciulli si ripresentava alla SAM per integrare le sue precedenti dichiarazioni ed esternava rammarico per quella che considerava inerzia da parte della P.G. e della A.G. in ordine alle accuse da lei mosse nei confronti del marito. Pertanto la Ciulli veniva sentita a verbale dalla S.V. il 16 aprile 1991 alle ore 16.45. Emergeva con tutta evidenza la inattendibilità della teste, nonché la incrollabile volontà di nuocere al Calamandrei in quanto la stessa sosteneva di essersi nuovamente recata con lui sul luogo del delitto il pomeriggio seguente all'omicidio del 1968 e di aver preso una coperta da dentro l'auto degli uccisi mentre il Calamandrei aveva preso un beauty-case. La S.V. contestava alla Ciulli che ciò non poteva essere vero perché dagli atti processuali risultava che l’auto era stata rimossa e posta sotto sequestro presso la Compagnia di Signa alle ore 9.30 del giorno 22.8.1968, poche ore dopo il delitto, avvenuto nella notte precedente. Dal momento in cui furono rinvenuti i cadaveri del Lo Bianco e della Locci l'auto fu piantonata dai CC fino alla rimozione. La Ciulli prese atto della contestazione, si dichiarò sollevata nella coscienza e disse che l'auto da lei vista quel pomeriggio era sicuramente un'altra vettura".

Eppure dopo breve tempo, la donna ritornò alla carica con le accuse al marito. Chiunque abbia raccolto le testimonianze della Ciulli sostiene che a sentirla parlare non si sarebbe mai detto che fosse affetta da un qualche disturbo psichiatrico. Era estremamente coerente, lucida e precisa nei suoi particolareggiati racconti, tanto da instillare inevitabilmente il dubbio nei suoi interlocutori, soprattutto in coloro che non avevano una profonda conoscenza della "vicenda mostro", che quelle accuse potessero avere un certo fondamento. Lo stesso Rontini, pur profondamente scettico ma nel contempo strenuamente impegnato nella spasmodica ricerca degli assassini di sua figlia, nella primavera del 1992 decise di contattare telefonicamente il Calamandrei nella sua farmacia a San Casciano per invitarlo a un colloquio privato e cercare di capire cosa ci fosse di vero nelle dichiarazioni della moglie. Il colloquio fra i due si tenne a Vicchio nella casa di Renzo Rontini e dovette concludersi positivamente, perché al termine dello stesso il Calamandrei, a detta della sua compagna dell'epoca, apparve visibilmente sollevato.

La Ciulli frattanto continuava imperterrita con le accuse nei confronti dell'ex marito, coinvolgendo altri ben noti personaggi, come il procuratore Vigna e il giornalista Mario Spezi. Nel dicembre del 1991, confidò infatti a un sacerdote che un gruppo di persone molto altolocate, fra cui suo marito, suo figlio e lo stesso Pier Luigi Vigna, stava progettando l'ennesimo duplice omicidio del "Mostro", da compiersi alla Madonna del Sasso a Pontassieve.
Con l'arrivo di Giuttari (ottobre 1995), con le prime dichiarazioni della Ghiribelli (dicembre 1995), con la lettera del Lotti (novembre 1996) e con il conseguente inizio delle indagini sui mandanti e sulla pista esoterica, il 7 luglio del 1998 il Calamandrei subì una lunga perquisizione nella propria abitazione di San Casciano in esecuzione di un decreto emesso dal PM Paolo Canessa. Al termine venne sequestrato vario materiale per lo più suggestivo: quadri, videocassette pornografiche, videocassette contenenti registrazioni di programmi a tema MdF, libri di magia e una rivista di esoterismo intitolata "Diva Satanica", scritta in triplice lingua (italiano, inglese e francese) e stampata nel mese di giugno del 1990. Vennero inoltre sequestrati agende, appunti e vario materiale cartaceo in cui il Calamandrei sembrava aver riversato, probabilmente nei periodi di più acuta depressione, i malesseri e i fallimenti di una vita, i propositi di suicidio, i problemi di alcolismo e di tossicodipendenza. Ciò che, però, maggiormente insospettì gli inquirenti è che non venne rinvenuto alcun tipo di materiale antecedente al 1989. Da una nota riassuntiva del GIDES si può leggere, infatti: "Si deve innanzi tutto evidenziare che non è strato trovato nessun materiale antecedente all'anno 1989, né agende, né fotografie (nemmeno del matrimonio), il 1989 corrisponde alla chiusura della pista sarda e all'inizio dell'investigazioni su Pietro Pacciani..."
L'anno successivo, il Calamandrei vendette la farmacia di sua proprietà al collega Luca Iannelli. Seguì un periodo di stasi nelle indagini sui mandanti, probabilmente anche dovuto alle beghe burocratiche e ai problemi legali che avrebbero tenuto Giuttari lontano dalle investigazioni per un paio di anni. Nel 2000, la Ciulli, in seguito a perizia psichiatrica, fu interdetta. Nel 2003, con la formazione del pool investigativo denominato GIDES (Gruppo Investigativo Delitti Seriali), le indagini sui mandanti ripresero nerbo. E a dispetto delle esternazioni della Ciulli ormai sempre più deliranti, gli inquirenti iniziarono davvero a ritenere che il dottor Calamandrei potesse essere non solo coinvolto nei delitti, ma anche il trait d'union fra i mandanti dei delitti, i cosiddetti notabili, e la bassa manovalanza (Pacciani, Vanni e Lotti).
Il 20 gennaio 2004 ebbe luogo una nuova perquisizione, coordinata dell'ispettore Michelangelo Caselli, presso l'abitazione del farmacista. La perquisizione durò ben 13 ore, ma anche in questo caso il materiale rinvenuto, definito dagli inquirenti "utile per le indagini", in larga parte lo stesso rinvenuto nella perquisizione di sei anni prima, aveva una valenza per lo più suggestiva.
Risulta a questo punto doveroso elencare alcuni aspetti della vicenda e della vita del Calamandrei che - partendo proprio dalle accuse della moglie - hanno potuto far nascere più o meno forzati sospetti in seno agli inquirenti:
● l'antica conoscenza fra Calamandrei e il dottor Giulio Zucconi, a lungo sospettato da voci di popolo di avere a che fare con i delitti del Mostro;
● la presunta conoscenza fra Calamandrei e il dottor Francesco Narducci, anche lui sospettato di aver avuto a che fare con i delitti: una conoscenza che il farmacista ha sempre negato, ma che sembrava venire attestata da diverse testimonianze (vedremo nel prossimo capitolo l'attendibilità delle stesse);
● le dichiarazioni del Pacciani all'avvocato Fioravanti, secondo cui il farmacista Calamandrei era uomo fortemente interessato a pratiche di magia. Il che di per sé non è reato, ma rappresentava indizio suggestivo agli occhi di chi cercava mandanti dediti a pratiche di magia e riti esoterici;
● la conoscenza fra Calamandrei e il condannato Vanni, il quale aveva dichiarato di essere stato più volte a casa del farmacista e di aver avuto buoni rapporti con lui e con la signora Ciulli. Una conoscenza sospetta, ma che doveva essere presa con ampio beneficio del dubbio a causa del precario stato psichico in cui versava il Vanni nel periodo in cui rilasciava tali dichiarazioni. Sarà l'avvocato difensore del Calamandrei, Gabriele Zanobini, a provarlo durante il Processo a carico del suo assistito. Torneremo su questo punto piú avanti;
● sempre a proposito della conoscenza fra Calamandrei e Vanni, vi erano alcune testimonianze che riportavano come talvolta l'allora postino avesse partecipato ad alcune cene in compagnia del farmacista e del suo gruppo di amici. Verrà, in realtà, accertato che si trattava per lo più di ritrovi goliardici in cui, di tanto in tanto, venivano invitati personaggi come il Vanni, i quali, dopo qualche bicchiere, rendevano più "allegre" le serate. Fu, ad esempio, il gestore della trattoria "Ponte Rotto" a dichiarare: "che il Calamadrei era stato visto, anche col Vanni, negli anni 70/80, insieme ad altri che con Vanni facevano ridere, definiti chiassoni";
● una lettera scritta dallo stesso Vanni, mentre era in carcere, indirizzata proprio al farmacista. Una lettera innocua, come molte che aveva scritto il Vanni nel periodo di detenzione in cui cercava aiuto presso diversi conoscenti e notabili di San Casciano, ma che per l'Accusa indicava una conoscenza pregressa fra le parti. La lettera recitava testualmente:
"Carissimo Farmacia Calandrei gli scrivo questa lettera per farli sapere che stò male in 9 mesi non mi è riuscito di telefonare alla moglie Luisa che schifo cari farmacisti che vergogna è questa non ne posso più di stare in galera non ho fatto nulla è una vergogna questa e chiedo la Nazione e non la portano da 10 giorni che sistema è questo… Mi ha detto il mio avvocato di Firenze che fino al processo non mi mandano a casa il signor giudice Vigna e Canessa insomma siamo a un bel punto ha detto l'avvocato Pepi Gianpiero che stia tranquillo e beato ci vuole pazienza insomma. Quando tornerò a casa faremo un bel carteggio se lo permette il Maresciallo perché io sono innocente non ho fatto nulla di male e vi faccio tanti saluti a Francesca e signorina farmacista. Arrivederci a presto tanti saluti Vanni Mario".
● infine ci sarebbero le dichiarazioni della signora Rossana Mascia, donna di origini campane, compagna del Calamandrei nei primi anni '90. La Mascia ebbe modo di dipingere agli inquirenti il farmacista come una specie di strozzino, dedito all'alcool, alla cocaina, agli psicofarmaci, talvolta violento, in preda a turbe psichiche e profondamente attratto dalla magia.
Inoltre, la donna stessa confermò paradossalmente la faccenda già raccontata dalla Ciulli riguardo la pistola buttata in mare da Punta Ala. A suo dire infatti fu lo stesso Calamandrei a raccontarle questo particolare e le riferì di essersi disfatto di quella pistola per evitare noie burocratiche.
Infine, sempre la Rossana riferì del colloquio fra Rontini e Calamandrei avvenuto nella primavera del 1992. Dalle sue dichiarazioni emerge che il farmacista appariva molto turbato all'idea di incontrare il padre di una delle vittime del mostro e chiese alla donna di accompagnarlo, in modo da dare l'impressione al Rontini di avere una vita normale, una compagna, degli affetti. Stando sempre alle dichiarazioni della signora Rossana, dopo l'incontro (cui lei comunque non aveva assistito) il Calamandrei apparve estremamente sollevato, come se avesse "scansato un pericolo".

Nessuno dei punti sopra elencati aveva e ha tuttora il benché minimo valore probatorio, anzi alcuni appaiono decisamente pretestuosi come la lettera del Vanni, tuttavia inseriti in un contesto di testimonianze, invero in taluni casi alquanto incerte, alcune delle quali però presuntivamente concordanti, che sembravano individuare nel Calamandrei il punto di contatto fra i mandanti dei delitti e i sicari prezzolati, potevano avallare un quadro indiziario su cui la Procura di Firenze stava concentrando i propri sforzi.
Nel 2005 il Calamandrei ricevette un avviso di garanzia da parte della Procura di Perugia, che aveva iniziato a collaborare con quella di Firenze, per concorso nell'omicidio del dottor Francesco Narducci. Secondo la Procura perugina, Narducci, che faceva parte del gruppo di notabili che commissionava i delitti del Mostro, avrebbe avuto un ripensamento dopo il duplice delitto del 1985; probabilmente avrebbe voluto lasciare il gruppo o peggio ancora parlare, in ogni caso rappresentava una minaccia per i suoi facoltosi complici. Il Calamandrei avrebbe perciò ordinato il suo omicidio per assicurare a se stesso e agli altri l'impunità dai delitti del mostro.
Nel 2006 gli fu notificato un nuovo avviso di garanzia, in quanto ritenuto uno dei mandanti degli ultimi cinque duplici omicidi attribuiti al cosiddetto Mostro di Firenze (da ottobre 1981 a Calenzano a settembre 1985 a Scopeti). Successivamente, nella richiesta di rinvio a giudizio del 4 dicembre 2006 l'imputazione per il duplice delitto di Calenzano venne meno, probabilmente perché per quel delitto non esisteva per la Giustizia un esecutore materiale e dunque non potevano esistere i mandanti. La risposta positiva alla richiesta di rinvio a giudizio arrivò in data 20 marzo 2007.


Il Processo
A Firenze, il 27 Novembre 2007 ci fu la prima udienza del Processo con rito abbreviato, presieduto dal GUP, dottor Silvio De Luca, che vedeva imputato il dottor Francesco Calamandrei come mandante dei delitti del Mostro Firenze.
L'accusa era sostenuta dai PM Paolo Canessa e Alessandro Crini; la difesa era a carico dell'ottimo avvocato Gabriele Zanobini, lo stesso che aveva difeso Alberto Corsi durante il processo ai CdM, e di suo figlio Nicola Zanobini.
Si trattava anche in questo caso di un processo puramente indiziario. Prove che supportassero non solo la colpevolezza del Calamandrei ma anche l'esistenza dei mandanti, non vi erano, in più la principale testimone dell'Accusa, Gabriella Ghiribelli, era venuta a mancare meno di tre anni prima, privando di fatto la Procura nell'ultima fase indagatoria di quella che riteneva la propria arma migliore.
Il processo fu funestato dalla morte per overdose del figlio dell'imputato, Marco Calamandrei, il 4 marzo 2008 in quel di Arezzo.
Il 6 Maggio, la Pubblica Accusa chiese l'ergastolo (da ridursi a 30 anni per via del rito abbreviato) nei confronti dell'imputato per associazione a delinquere finalizzata all'omicidio e al concorso degli ultimi quattro delitti attribuiti al Mostro di Firenze. La Procura identificò nel Calamandrei l'intermediario fra i compagni di merende (Pacciani, Vanni, Lotti) e i notabili che usavano i feticci in riti satanici e orgiastici all'interno di villa "La Sfacciata" in via di Giogoli.
Ciò che però sembrava non tornare nel teorema della Pubblica Accusa e che l'avvocato Zanobini non mancò di sottolineare più volte durante la sua mirabile arringa difensiva, era che nei delitti del 1982 (Baccaiano) e del 1983 (Giogoli) non erano stati asportati feticci dalle vittime femminili. Dunque, nei primi due omicidi per cui il Calamandrei era imputato, era venuto a mancare il motivo principale per cui quegli stessi delitti erano stati commissionati; mentre nei successivi due delitti (Vicchio e Scopeti), gli unici due fra i mandanti gaudenti che vivevano a villa "La Sfacciata" (il Reinecke e presuntivamente il Parker), avevano già da qualche mese abbandonato la zona per trasferirsi altrove (vedasi capitolo Il secondo livello).
Il Calamandrei si sarebbe quindi ritrovato a fare da intermediario fra i notabili e i killer prezzolati in quattro omicidi il cui fine era quello di portare all'interno di Villa "La Sfacciata" i feticci, ma in due di questi quattro omicidi non c'erano stati feticci e negli altri due non era più disponibile la villa in quanto lasciata dai due mandanti che la abitavano. Veniva dunque a cadere il movente o meglio il collegamento omicidi-feticci-riti, su cui basava le proprie fondamenta il teorema dell'Accusa.
A seguito dell'andamento del processo, intervistato prima della sentenza, il Calamandrei si era detto piuttosto ottimista: "Credo che sarò assolto. L'avvocato Zanobini è riuscito a smontare con prove, carte e dati di fatto una costruzione accusatoria basata sul sentito dire, su nulla di concreto..."


La sentenza De Luca
Il 21 Maggio 2008, il giudice De Luca assolse l'imputato da ogni accusa perché il fatto non sussisteva.
La sentenza affermava testualmente: "I sillogismi sostenuti dalla Pubblica Accusa non solo non si sono tradotti in indizi gravi, precisi e concordanti ma sono risultati solo ipotesi, inizialmente anche plausibili, ma non collegate le une alle altre da riscontri di una qualche oggettività".
Proseguiva dichiarando: "...Alcuni dei protagonisti erano i medesimi sia a Faltignano che alla Sfacciata, almeno quelli femminili più importanti, non appare acclarato il coinvolgimento del Calamandrei nei due distinti luoghi: infatti la Ghiribelli ne ha parlato in maniera del tutto contraddittoria, in alcuni casi negandone la presenza ,in altri ammettendola; la Nicoletti, che più direttamente avrebbe dovuta parlarne per cognizione di causa, avendo abitato stabilmente sino all'anno 1984 in via di Faltignano, non ne ha mai parlato e neanche la Pellecchia e la Miniati. Altri testi, ritenuti attendibili nel processo Vanni-Lotti, (il Nesi e il Pucci) ne parlano, come si è visto, solo de relato e senza una conoscenza diretta, limitandosi a riportare, per lo più, voci correnti nel paese..."
E terminava con queste testuali parole: "Si impone, dunque, la pronuncia di una sentenza con formula assolutoria «perché il fatto non sussiste», che, oltre ad implicare l'esclusione della condotta, dell'evento o del nesso di causalità o, comunque, il dubbio su tali elementi, prevede, come nel caso di specie, l'assenza o l'insufficienza della prova circa il presupposto del reato."
Dunque non solo il Calamandrei non era colpevole dei reati a lui ascritti, ma non vi erano prove a dimostrazione che quei reati fossero stati realmente commessi. Questo è bene precisarlo, perché si sente talvolta affermare dalla mostrologia di stampo colpevolista (e talvolta anche da qualche investigatore che ha partecipato alle indagini) che il Calamandrei risulta essere stato assolto con "formula dubitativa" o per la vecchia formula dell'insufficienza di prove. In realtà, è palese come questo non corrisponda al vero: "l'assenza o l'insufficienza della prova" cui fa riferimento la sentenza non si riferisce alla condotta del Calamandrei ma alla sussitenza del reato stesso. Di fatto, l'assoluzione perchè "il fatto non sussiste" rappresentò il peggior epilogo possibile per la Pubblica Accusa, che non intese neanche presentare ricorso. E, a tal proposito, giova ricordare che a questa sentenza andrebbe sommata quella di secondo grado del Processo ai Compagni di Merende che condannava Vanni e Lotti ma escludeva la possibilità di un secondo livello.
È altresì vero che la sentenza di assoluzione di De Luca faceva riferimento a "un'ombra nera" che aleggiava sul capo del Calamandrei. Questo passaggio della sentenza, negli anni a venire, è diventata una freccia nell'arco dei colpevolisti, generando dibattiti e dispute nei più svariati salotti mostrologici. La famigerata ombra nera era rappresentata dalla presunta conoscenza fra il Calamandrei e il dottor Narducci, una conoscenza che il farmacista aveva sempre negato con forza, ma che secondo De Luca poteva essere ritenuta plausibile. Scriveva, infatti, il giudice: "Tuttavia se ciò comporta un sospetto, anzi un'ombra nera (tanto per rimanere in tema di magia, esoterismo e cose affini..) nei suoi confronti per aver taciuto di detta conoscenza (o amicizia)..."
Ci soffermeremo dettagliatamente su questo argomento nel prossimo capitolo e cercheremo da capire quanto la predetta ombra possa essere considerata consistente o oscura.
A ogni modo, dopo l'assoluzione il Calamandrei commentò amaramente: "Sono contento, ma io sono stato condannato già nel 1988, quando iniziò per me questa vicenda. Questa assoluzione non risarcisce di 20 anni di sofferenze."
Frattanto anche le accuse mosse dalla Procura perugina erano cadute. Durante le indagini preliminari non erano, difatti, emerse prove a carico del Calamandrei come mandante dell'omicidio di Francesco Narducci (vedasi capitolo Una morte misteriosa) e lo stesso PM Giuliano Mignini aveva chiesto l'archiviazione della posizione dell'indagato. A seguito di tale richiesta, nel 2009 il farmacista venne prosciolto da tutte le accuse.
Circa tre anni dopo, il primo maggio del 2012, Francesco Calamandrei morì nell'androne del proprio palazzo a San Casciano Val di Pesa, stroncato da un malore, profondamente provato nel fisico e nello spirito dalle infamanti accuse e dalle mai sopite voci. Morì - è opportuno ribadirlo - da persona innocente.

È ora giunto il momento di ricapitolare le contraddizioni, le incongruenze, le inverosimiglianze o le palesi falsità che sono state sostenute dai principali testimoni nel corso delle indagini a carico dei mandanti per i delitti del Mostro di Firenze e che hanno contribuito alla sentenza di assoluzione nei confronti del Calamandrei. Tutto ciò - ancora oggi - rende per certi versi confuso, per altri non unanimemente condivisibile il quadro tratteggiato dagli investigatori.
Molti di questi punti sono già stati trattati nel corso dei capitoli precedenti, qui ci limitiamo a una schematica sintesi, rimandando, ove possibile, ai relativi link per gli approfondimenti:

1. La lettera del Lotti: Nell'interrogatorio di marzo del 1996, Lotti aveva dichiarato che - a detta del Vanni - le parti escisse durante i delitti venivano portate a casa del Pacciani, il quale voleva farle mangiare alle proprie figlie. Nessun accenno ad altri usi. Qualche mese dopo, nella lettera spontanea del novembre 1996, Lotti parlò di un dottore che riceveva i feticci in cambio di denaro. Successivamente affermò che in un'occasione tale dottore, senza scendere dalla propria automobile, ebbe un breve colloquio col Vanni nella piazza di San Casciano.
Ora, è un po' difficile pensare che sei mesi prima, a marzo, Lotti non ricordasse dell'esistenza di tale medico e avesse dato tutt'altra spiegazione all'uso dei cosiddetti feticci. La Procura ha sempre sostenuto che Lotti facesse piccole confessioni di volta in volta per compromettersi il meno possibile. In questo caso tale motivazione non regge, perché che i feticci fossero finiti nelle mani di un medico o nella cucina del Pacciani, per la posizione del Lotti non avrebbe fatto alcuna differenza.
Anche durante il Processo ai CdM, il Lotti diede la sensazione di non sapere bene cosa dire sul misterioso medico che aveva tirato in ballo, trincerandosi dietro numerosi "non ricordo" o rispondendo un po' a caso alle domande delle varie parti, tanto da irritare lo stesso PM, Paolo Canessa quando gli fu chiesto di descrivere l'automobile con cui tale medico era arrivato in piazza a San Casciano.
2. I festini in via Faltignano: La Ghiribelli parlò di sedute spiritiche, orge, incontri sessuali con minori, che avvenivano nella casa dell'Indovino alla presenza di diversi partecipanti. Non uno degli abituali frequantatori della casa ha mai confermato di aver visto o di aver avuto il minimo sentore di tutto ciò. La Ghiribelli sarebbe stata smentita dalla Nicoletti, dal fratello di Indovino, dalla coppia Paradiso-Patierno, dallo stesso Galli, suo ex compagno e protettore. Quest'ultimo, soprattutto, non avrebbe avuto motivo per smentire le dichiarazioni della Ghiribelli, in quanto, pur avendo frequentato per sua stessa ammissione la casa dell'Indovino, non era stato annoverato dalla ex compagna come uno dei partecipanti a tali festini. Le dichiarazioni del Galli furono, anzi, tese a sminuire le rivelazioni della Ghiribelli, tacciandola come un'alcolista largamente inattendibile, nonché avida lettrice di romanzetti d'appendice che andavano ad alimentare la sua fervida fantasia.
3. La cena prenatalizia del 1980: La Ghiribelli dichiarò di aver partecipato a una cena il 23 dicembre 1980, quando già sicuramente abitava a San Casciano, a casa dell'Indovino assieme a Salvatore stesso, il fratello Sebastiano, la Nicoletti, Pacciani, Vanni, il Galli. Al termine della cena era partita una spedizione punitiva a casa di Renato Malatesta che, infatti, il giorno dopo era stato trovato morto. Il racconto della Ghiribelli lascia intendere che a tale spedizione avrebbe partecipato anche qualche membro delle forze dell'ordine e che la Sperduto fosse stata consapevole di quanto stava avvenendo in quanto dall'uscio di casa propria (confinante con quella dell'Indovino) aveva assistito alla partenza della spedizione punitiva.
Ora, a parte che questa fantomatica cena sarebbe stata smentita da tutti, Galli in primis, abbiamo già visto come la Ghiribelli fosse andata ad abitare a San Casciano nell'estate del 1984, quattro anni dopo la morte del Malatesta, rendendo infondato il suo racconto.
4. Pacciani e Vanni in via Faltignano: Sul punto la Ghiribelli si è contraddetta svariate volte. Nel dicembre 1995 dichiarò: "...Per quanto riguarda Pacciani Pietro io l'ho visto a casa di Indovino Salvatore..."
Appena sei giorni dopo corresse le sue precedente dichiarazioni: "...non ho mai visto il Pacciani Pietro né a casa dell'Indovino nella circostanza erroneamente riferita nel precedente verbale, né in altre occasioni. Ho visto il Pacciani solamente in televisione o suoi giornali in occasione della nota vicenda del Mostro di Firenze..."
Durante un'intercettazione telefonica confidò al Lotti: "...No, il Pacciani poi io non lo conoscevo...", per poi cambiare nuovamente idea e riferire della cena con Pacciani e Vanni a casa dell'Indovino.
Nessuno fra gli abituali frequentatori via Faltignano, né durante gli interrogatori o le testimonianze, né durante le innumerevoli intercettazioni telefoniche, avrebbe dichiarato di conoscere personalmente il Pacciani. Anche per quanto riguarda il Vanni le testimonianze che attestavano la sua presenza appaiono poche e confuse. C'è la solita Ghiribelli, ci sarebbe il Nesi, secondo cui avrebbe accompagnato in qualche occasione il Vanni in una casa fatiscente e molto sporca di via Faltignano, ma non è ben chiaro se si riferisse a quella della Sperduto o a quella dell'Indovino, che però lui conosceva solo di vista. E poi null'altro. Bisogna dire che il Nesi, nel corso delle sue deposizioni, tenderà progressivamente ad allinearsi sempre più alle dichiarazioni della Ghiribelli, arrivando a parlare nel 2003 (dunque, oltre dieci anni dopo le sue prime deposizioni) anche lui di cose molto brutte che avvenivano nella casa dell'Indovino, cose per cui persino il Vanni (che avrebbe dovuto essere colui che praticava le escissioni negli omicidi del Mostro) provava ribrezzo.
Scrisse il giudice De Luca nella sua sentenza: "Nessuno, tranne la Ghiribelli, con la contraddittorietà già più volte sottolineata, ha riferito che la stamberga di via di Faltignano fosse frequentata anche da Vanni e da Pacciani, né tantomeno da nessuno dei cosiddetti "intellettuali", in particolare dal Calamandrei".
5. L'intervista: In un'intervista del 2001 resa alla giornalista Roberta Petrelluzzi, la Ghiribelli si mostrò piuttosto spaventata dal cosiddetto secondo livello, riportando frasi quali: "vi sto parlando con il cuore in mano", "ti ho già detto che non mi fido nemmeno della mia ombra", "...anche in farmacia dovresti andare, però li devi prendere di brutto, cattiva devi andare eh!..."
Come riporta De Luca nella sua sentenza, la sofferenza e le difficoltà mostrate - secondo la Pubblica Accusa - dalla Ghiribelli in occasione di detta intervista, quasi che stesse rivelando qualcosa di estremamente pericoloso e del tutto nuovo, contrastravano fortemente con lo spirito goliardico che invece la donna aveva mostrato quattro anni prima, durante la sua deposizione pubblica al processo contro i CdM, quando innanzitutto aveva dichiarato di non aver saputo nulla di ciò che stava dietro i delitti del Mostro fino alle prime confessioni del Lotti ("...fino a quella sera io non ho mai saputo... Ma si rende conto che io sono stata sedici anni a frequentare un essere del genere? Mi veniva in casa. A che rischio sono andata? Si deve rendere conto..."); poi aveva apostrofato goliardicamente l'avvocato di parte civile Aldo Colao con la caustica battuta "...Lei la venga a letto con me, poi si sta a vedere...", generando un coro di risate in buona parte dell'aula, Presidente della Corte compreso.
Dunque, come sostiene De Luca, la Ghiribelli, all'epoca, non si mostrava affatto preoccupata o intimorita, per poi cambiare del tutto atteggiamento in seguito, ma solo quando stampa e TV si erano già occupate dei sospetti sul farmacista. Scrive De Luca: "...La stampa e la tv dunque si era occupata con enfasi e dettagliatamente del Calamandrei additandolo, a seguito delle indagini allora in corso e delle perquisizioni nella sua abitazione, proprio quale possibile mandante degli omicidi attribuiti al “mostro di Firenze” e la Ghiribelli, che ha sempre continuato ad abitare in quel contesto, non poteva certamente ignorare la assillante campagna di stampa e televisioni nei suoi confronti. Non appare credibile, dunque, allorchè, dopo circa tre anni da tale fatti e senza che nel frattempo fosse venuta a conoscenza di alcuna nuova circostanza, sembra adombrare una pista prima ignota..."
6. Le sorelle di Massa: Parlando del coinvolgimento di minorenni nei festini orgiastici, la Ghiribelli aveva dichiarato che questi venivano portati a San Casciano da due sorelle di Massa, le quali si fermavano a mangiare da lei, prima di recarsi a villa "La Sfacciata" per i festini e gli incontri a base di sesso e magia.
Come fa notare la Sentenza De Luca, ciò non poteva essere avvenuto prima della seconda metà del 1984, in quanto solo allora la Ghiribelli era andata ad abitare a San Casciano. Ma già dall'inizio del 1984, a "La Sfacciata" non potevano più svolgersi i festini, in quanto i protagonisti non ne avevano più la disponibilità materiale, visto che Reinecke e Parker avevano lasciato la villa.
7. Mario Robert Parket: Sempre la Ghiribelli dichiarò di aver visto il Parker dare molti soldi al Lotti e che questi soldi venivano usati per portare la nipote del Vanni al mare o per uscire con la Nicoletti. Ma Giancarlo Lotti avrebbe conosciuto la Bartalesi oltre 10 anni dopo che il Parker aveva abbandonato la zona.
Inoltre che il Parker fosse chiamato "Ulisse" è qualcosa che riferisce sempre e solo la Ghiribelli e che non avrebbe trovato riscontro in nessun altro testimone, compreso le persone più prossime allo stesso Parker.
8. Gli esperimenti di mummificazione: Abbiamo già parlato delle dichiarazioni della Ghirinelli sugli esperimenti di mummificazioni condotti da un medico svizzero alla "Sfacciata". Questo medico aveva trovato un papiro durante un viaggio in Egitto, a cui però mancava di una pagina fondamentale per la positiva conclusione degli stessi. I feticci strappati alle vittime femminili nei delitti compiuti dal Mostro di Firenze servivano per completate tali esperimenti.
Tornano alla mente, leggendo queste dichiarazioni, le dichiarazioni del Galli sulla fervida fantasia della Ghiribelli, alimenatata dai romanzetti di cui era avida lettrice e dall'abuso di alcol.
Ogni altro commento sembra superfluo.
9. La conoscenza del Vanni: Abbiamo accennato in precedenza come la presunta conoscenza fra il dottor Calamandrei e il condannato Vanni poteva essere vista come un indizio a carico del farmacista. Vanni aveva, infatti, dichiarato di essere stato più volte a casa del Calamandrei e di aver avuto buoni rapporti con lui e con la moglie.
Addirittura, l'ex postino aveva descritto con dovizia di particolari l'abitazione del l'imputato, soffermandosi minuziosamente sulla composizione delle camere, dei salotti, dei due bagni. Una descrizione che, secondo la Pubblica Accusa, corrispondeva alla planimetria acquisita della casa del farmacista. A inficiare profondamente questa testimonianza, arrivò però il controesame dell'avvocato Zanobini, il quale chiese al Vanni se conoscesse le abitazioni di altri due maggiorenti del paese (il sindaco e il parroco). In risposta, l'ex postino riferì gli stessi identici particolari, gli stessi ambienti delle case, le stesse circostanze. Non solo, a dimostrazione dello stato di salute mentale estremamente labile del Vanni nel periodo di codeste dichiarazioni, non è da trascurare quanto trascritto nel verbale del 25 gennaio 2005: raccontando della sua conoscenza con la Ciulli, in risposta a una domanda di cortesia del PM Canessa ("la vengono a trovare i parenti?"), Vanni rispose "Sì, poi c'è il mi' fratello".
Vanni non aveva fratelli.

Ci sarebbero poi le dichiarazioni del Nesi, testimone de relato di quanto avveniva in via Faltignano o a villa "La Sfacciata" e che aveva creduto di vedere Salvatore Indovino, vestito con una tunica da mago, a casa della prostituta Gina Manfredi, in un'epoca in cui l'Indovino ancora non praticava le sue "arti magiche" (vedasi capitolo "Le morti collaterali" e "Via Faltignano").
Ci sarebbero le dichiarazioni della Marzia Pellecchia sui festini in una non meglio identificata villa vicino San Casciano, che non hanno trovato conferma in nessun altro testimone, compreso le altre donne che - a dire della Pellecchia - avevano particpato a tali festini.
Ci sarebbero anche le dichiarazioni del Sertoli che, come visto nello scorso capitolo, dichiarò che una sera di fine anni '60, in quel di San Casciano, il Calamandrei convinse lui e altri medici della zona a fare una visita canzonatoria al mago Indovino. Una volta arrivati a casa del mago, secondo il Sertoli era evidente che fra Indovino e Calamandrei ci fosse una certa confidenza. Ora, alla fine degli anni '60 Indovino viveva ad Alessandria.
Ma soprattutto ci sono le dichiarazioni di Mariella Ciulli, che tanta parte hanno avuto nelle sfortune giudiziarie del dottor Calamandrei. Sembra indubbio che tali sfortune abbiano avuto origine dall'insistenza con cui la moglie ha martellato per anni gli inquirenti, finché non ha trovato dall'altra parte il contesto e le persone giuste perché le sue accuse potessero essere non solo ascoltate ma anche prese in seria considerazione.
Eppure, a un'attenta lettura dei fatti, non si può non riconoscere come i resoconti che la Ciulli ha fatto nel corso degli anni agli inquirenti e ai suoi occasionali interlocutori (da Renzo Rontini in giù), sebbene in apparenza lucidi e precisi, fossero davvero il confuso disegno di una persona che, morbosamente ossessionata dalla vicenda del Mostro e rancorosa verso il marito, cercava anche piuttosto ingenuamente e sicuramente in maniera farneticante di far quadrare tutti i punti oscuri della vicenda, attingendo a piene mani a fatti ed eventi realmente accaduti e adattandoli al meglio alla figura del proprio marito.
Per esempio, quando la Ciulli riferisce di aver trovato i feticci custoditi dal marito in un frigorifero appare un chiaro riferimento alla incresciosa vicenda del già citato dottor Garimeta Gentile (vedasi capitolo dedicato all'omicidio delle Bartoline), allorché dopo il delitto delle Bartoline si era sparsa la diceria popolare che la moglie del ginecologo avesse fatto l'insana scoperta dei feticci in un frigorifero.
Il racconto dell'episodio avvenuto in occasione del delitto del 1968, improponibile per chi conosce l'evoluzione dei fatti a Signa, ne è un altro lampante esempio: il Calamandrei e la Ciulli che passarono dal luogo del delitto, il marito che accompagnò il piccolo Natalino Mele (dando finalmente spiegazione a come questi fosse riuscito ad arrivare a casa dei De Felice), sempre loro due che tornarono sul luogo del delitto il giorno successivo, il marito che frugò all'interno dell'automobile (da notare che nella realtà la stessa era stata già rimossa dalle forze dell'ordine) e trovò la pistola (dando finalmente spiegazione al famoso passaggio dell'arma dai sardi al mostro).


3 commenti:

  1. Povero uomo accusato ingiustamente da gente fuori di testa.Che purtroppo comandano anche.

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  2. Non ci posso credere! ma come si fa ad ipotizzare simili boiate! i feticci in frigo??? pacciani che glieli porta incartati magari nella cartapaglia da macellaio a peso.

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  3. Si ma la colpa e' anche degli inquirenti ma come si fa'! cioe' viene una pazza del genere da me che mi racconta di pezzi di carne nel frigorifero e io ci credo pure e vado ad indagare e controllare?? ma andiamo!!

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