Facciamo adesso un passo indietro rispetto alla chiusura delle indagini sui cosiddetti mandanti dei delitti del Mostro di Firenze, per parlare dei conflitti che nacquero fra la Procura di Firenze e il dottor Michele Giuttari, l'alto funzionario di polizia che a queste indagini aveva dato il via. La diatriba successivamente coinvolse anche la Procura di Perugia nella persona del sostituto procuratore Giuliano Mignini. Si passó, quindi, da una situazione di reciproca collaborazione nei primi anni del nuovo millennio a un aspro conflitto legale.
Tutto aveva avuto inizio nel 2002 quando il dottor Ubaldo Nannucci divenne Procuratore Capo di Firenze, in sostituzione per sopraggiunti limiti d'età di Antonino Guttadauro, che a sua volta aveva sostituito Piero Luigi Vigna, il quale era stato invece destinato a incarichi più prestigiosi.
Mentre Guattadauro era stato piuttosto compiacente nei confronti delle indagini condotte da Giuttari, spesso avallandole e sostenendole, Nannucci si mostrò sin da subito abbastanza ostile, tanto che con il suo insediamento cominciarono a venire meno le deleghe che servivano a Giuttari per compiere le proprie indagini.
Accadeva così che, mentre a Perugia si procedeva a spron battuto con le indagini sulla morte del Narducci, a Firenze si viveva una situazione di snervante attesa.
Sul fronte perugino, il 20 maggio del 2002, il professor Giovanni Pierucci presentò la relazione tecnica che gli era stata commissionata dal PM Mignini sul ripescaggio del cadavere del dottor Narducci dal lago Trasimeno (vedasi capitolo precedente). Forse pungolato da tali sviluppi, sul fronte fiorentino, il giorno successivo, Giuttari dapprima presentò una nuova richiesta scritta di deleghe, quindi, nel pomeriggio, incontrò privatamente il Sostituto Procuratore Paolo Canessa, con cui collaborava ormai da anni alla ricerca degli eventuali mandanti per i delitti del Mostro.
Il colloquio fra Canessa e Giuttari venne registrato da quest'ultimo. Un registrazione che - sosterrà Giuttari nelle opportune sedi - era stata eseguita per errore.
Durante il colloquio, Canessa si lasciò andare a qualche considerazione personale, manifestando una certa contrarietà per il comportamento tenuto nella vicenda dal capo del suo ufficio, appunto il dottor Nannucci, definendolo "un uomo non libero", per via di un'antica conoscenza con alcuni personaggi sospettati o comunque oggetto delle indagini di Giuttari, quali il ginecologo Zucconi e l'avvocato Jommi.
Per la cronaca, in seguito Nannucci chiarirà di aver conosciuto lo Jommi in quanto suo compagno di università, ma di non aver mai conosciuto lo Zucconi, bensì suo fratello Gaetano con cui aveva frequentato le scuole superiori.
A ogni modo, Giuttari ritenne opportuno conservare questa - a suo dire involontaria - registrazione e tirarla fuori tre anni dopo, nel 2005, quando il PM di Perugia, dottor Mignini, con cui adesso Giuttari collaborava fittamente per le indagini sui mandanti, presentò un esposto al tribunale di Genova contro il dottor Nannucci, il quale continuava a mostrarsi piuttosto maldisposto nei confronti del poliziotto.
Ricordiamo a tal proposito che nel giugno del 2002, Nannucci non aveva esitato a estromettere Giuttari dalle indagini sulla vicenda delle "Cappelle del commiato", accusandolo, peraltro ingiustamente, di avere passato informazioni riservate alla stampa. E ricordiamo che, invece, era stato proprio Nannucci a passare alla stampa la notizia della lettera di censura ricevuta da Giuttari da due dirigenti della questura fiorentina, Roberto Sgalla e Mario Viola.
L'esposto di Mignini nasceva fondamentalmente perché, secondo lui e Giuttari, nella registrazione durante il colloquio con Canessa emergeva chiara la volontà del Procuratore Capo di Firenze di ostacolare le indagini sui mandanti. Il fulcro risiedeva nella frase di Canessa "Lui non è un uomo libero", trascritta e inviata a Genova come prova contro Nannucci.
Il dottor Canessa, parte offesa nel procedimento giudiziario, testimoniò nel merito il 21 Novembre 2005 davanti al Procuratore Capo di Genova, dottor Giancarlo Pellegrino. Dichiarò di non riconoscere la sua voce in quella registrazione. Di seguito alcuni stralci della sua testimonianza:
"Intendo, in primo luogo, precisare con assoluta fermezza che nessun ostacolo mi è mai stato frapposto nel corso delle indagini per gli omicidi del cd. "Mostro di Firenze" da parte dei capi degli uffici della Procura di Firenze ed, in particolare, dai colleghi Vigna, Guttadauro e Nannucci che si sono succeduti a vertice della Procura... ...Non posso escludere che il dott. Nannucci abbia chiesto in esame la nota della Squadra Mobile e che abbia poi espresso il suo parere in proposito; non ricordo comunque di averne parlato con il dott. Giuttari. Non posso escludere che il parere espresso dal dott. Nannucci fosse negativo nel senso che avesse trovato piuttosto "fumose" le prospettive delle indagini proposte dalla Squadra Mobile. Quello che devo dire con assoluta tranquillità è che, indipendentemente dal parere – legittimo – del Procuratore (parere e non ordine sia ben chiaro) le indagini ritenute utili dal sottoscritto per l'individuazione degli eventuali mandanti (ed anche per fatti in qualche modo connessi) sono state effettuate al di là di quel che sostiene il dottor Giuttari; in particolare, oltre alle indagini sull'avvocato Jommi, sono stati sviluppati gli spunti su Zucconi (la cui moglie è stata mandata a giudizio per rapina nei confronti della moglie di Pacciani), su Spinoso (mandato a giudizio per detenzione di armi e concorso nei reati), Graziano Flavio (mandato a giudizio per frode processuale, calunnia e autocalunnia), Mattei Aurelio, SISDE. L'esito di tali attività non si è rivelato produttivo, tanto che l'unico sviluppo positivo è stato quello su Calamandrei, su impulso proveniente dall'ufficio di Procura...
Esprimo innanzitutto il mio sdegno per il comportamento di un ufficiale di P.G. che registra un colloquio informale, senza informarmene. Si tratta di un comportamento che non merita ulteriori commenti. Vorrei fare notare che una simile iniziativa appare ovviamente diretta a "stimolare" nell'interlocutore considerazioni in qualche modo capziosamente indotte da chi clandestinamente registra il colloquio. Non sono in grado di indicare il periodo di tale conversazione, anche perché incontri con il dottor Giuttari in piazza della Repubblica ricordo di averne fatti diversi. Era il dottor Giuttari che non voleva salire in ufficio e preferiva incontrarmi per strada per parlare delle inchieste... Non mi riconosco nella frase che mi viene attribuita nella trascrizione: "hai capito! Un uomo libero non ti delude! Questo non è libero!"; la registrazione è disturbata e non posso esserne sicuro ma non mi sembra la mia voce e neppure il tipo di espressione mi appartiene...
Voglio aggiungere, infine, che alla fine del 2002 io (con il pieno consenso del dottor Nannucci) e con il collega Mignini ci recammo dal dottor Manganelli, che avevo già conosciuto a Firenze, e ottenemmo appositamente per il dottor Giuttari la formazione del Gruppo Investigativo Delitti Seriali. In conclusione voglio dire che nello svolgimento della mia attività non ho mai ricevuto ostacoli o condizionamenti dal dottor Nannucci, né in queste indagini né in altre; al contrario, mi ha sempre aiutato ed ha discusso sempre con me liberamente le iniziative più idonee per le singole richieste; non solo lo considero uno dei miei maestri in questo mestiere, ma non mi ha mai deluso e l'ho sempre considerato un uomo più che libero".
Venne disposta una perizia fonica dal PM di Genova, titolare del fascicolo, dottor Francesco Pinto. La perizia stabilì che la frase era stata pronunciata dallo stesso Giuttari ed era poi stata trascritta attribuendola alla persona sbagliata, appunto a Canessa.
La posizione del Nannucci, accusato di aver ritardato le indagini sui mandanti dei delitti del Mostro, si concluse con una richiesta di archiviazione per infondatezza di tutte le ipotesi di reato. Nella richiesta, la Procura genovese scriveva: "Tutte le accuse contro Nannucci partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti..." e sosteneva che l'assunto accusatorio nasceva da "una lettura ossessivamente orientata di circostanze disparate, insignificanti e non pertinenti".
Il GUP accolse la richiesta di archiviazione e, a quel punto, a finire iscritto nel registro degli indagati per falso in atto pubblico fu proprio Michele Giuttari assieme ai due suoi collaboratori che avevano trascritto la conversazione, l'ispettore capo Michelangelo Castelli e l'assistente Davide Arena, anch'essi appartenenti al GIDES, la squadra speciale che si occupava a tempo pieno dei delitti che avevano insanguinato le campagne fiorentine.
Giuttari si difese dichiarando alla stampa: "Non è stato fatto alcun falso, non è vero che quella è la mia voce. Io sono siciliano, l'accento di Canessa è toscano. Chiariremo tutto". Ma poi passò all'attacco, denunciando Paolo Canessa, Francesco Pinto e il perito di Genova: "Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta".
A quel punto era guerra totale.
Giuttari venne interrogato a Genova il 12 maggio 2006; il 19 vennero interrogati i suoi due collaboratori.
I legali dell'imputato, avvocati Giovanni Dedola e Andrea Fares, ribadirono che la registrazione era stata eseguita involontariamente e che a certificarne il contenuto era stata "una perizia disposta dal procuratore di Perugia Giuliano Mignini ed elaborata dai carabinieri del RIS". Questa perizia avrebbe in seguito procurato non pochi problemi allo stesso Mignini.
Riportiamo alcuni stralci di un articolo del quotidiano "Il Giornale" del 18 ottobre 2006: "...una doppia perquisizione, effettuata ieri nella Procura di Perugia e negli uffici del GIDES, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l'ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Ieri mattina nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull'indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il PM Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell'ufficio del PM Giuliano Mignini, titolare dell'inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell'inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio".
Sul fronte genovese, il 9 novembre 2006, il GUP Roberto Fenizia, pronunciò la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Giuttari e dei due suoi collaboratori perché il fatto non sussisteva e nella motivazione della sentenza, divenuta definitiva, attestava che non c'erano dubbi che la voce che aveva pronunciato la frase "incriminata" appartenesse al dottor Canessa.
I tre poliziotti erano stati assolti, dunque. Ma non era finita qui.
Le indagini che aveva condotto la Procura fiorentina si concretizzarono il 21 aprile del 2008, proprio nei giorni in cui si avviava verso una sentenza di assoluzione il processo contro il farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, quale mandante dei delitti del Mostro di Firenze. La Giudice per le Udienze Preliminari di Firenze, dottoressa Dania Mori dispose il rinvio a giudizio del sostituto procuratore di Perugia, Giuliano Mignini, e nuovamente di Michele Giuttari, entrambi per abuso d'ufficio.
Su Mignini pendeva anche l'accusa di favoreggiamento per aver disposto una propria consulenza audio sulla famosa registrazione del 2002 della conversazione con Canessa. Per l'accusa il PM perugino avrebbe quindi avvantaggiato Giuttari, svolgendo indagini in suo favore. Per la difesa, invece, quella consulenza era stata affidata al RIS da Mignini nel gennaio 2006, mentre Giuttari era finito sotto inchiesta a Genova solo nel maggio 2006. La consulenza disposta da Mignini aveva sì portato al proscioglimento di Giuttari a Genova, ma all'epoca il PM perugino non poteva sapere, considerati i tempi, che la consulenza che aveva disposto avrebbe contribuito a far scagionare alcuni mesi dopo il poliziotto.
Non era comunque tutto qui: la procura di Firenze contestó a Giuttari anche di aver registrato, in maniera illecita, un colloquio con l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e di aver svolto indagini illegittime su altri due funzionari di polizia, Sgalla e Viola, rispettivamente dirigente e funzionario dell'ufficio stampa dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, autori della predetta lettera di censura nei suoi confronti.
A Giuttari e Mignini venne infine contestato di aver predisposto intercettazioni e svolto indagini nei confronti di giornalisti non compiacenti verso le indagini sui mandanti.
Difatti, nel 2006 il giornalista de "La Stampa", Vincenzo Tessandori era stato intercettato per oltre due mesi. Anche i giornalisti Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro, autori di alcuni articoli sulla rivista "Gente" piuttosto critici nei confronti delle indagini di Giuttari, erano stati controllati e intercettati nel 2004.
I PM fiorentini Luca Turco e Gabriele Mazzotta ritenevano che questi provvedimenti volessero in realtà condizionare le legittime attività dei giornalisti. Torneremo più avanti su questo punto.
Si era, dunque arrivati a un durissimo scontro fra le due procure. Scriverà a tal proposito il giornalista Alvaro Fiorucci nel suo libro "48 Small. Il dottore di Perugia e il Mostro di Firenze":
"Uno scontro senza precedenti con i piemme fiorentini che perquisiscono gli uffici del piemme perugino e poi vanno a perquisirgli l'abitazione privata e il computer personale".
Il processo venne fissato per il 14 novembre 2008. La requisitoria dell'accusa fu durissima nei confronti del magistrato, del poliziotto e dei loro metodi d'indagine. Una censura a 360 gradi sul loro operato.
Poco più di un anno dopo, il 22 gennaio 2010 arrivò la sentenza. Giuliano Mignini fu condannato a un anno e quattro mesi, mentre Giuttari a un anno e sei mesi, entrambi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso per le indagini sui funzionari di polizia e sui giornalisti non compiacenti. Furono, invece, assolti perché il fatto non sussisteva dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari) relativa ai cosiddetti accertamenti 'paralleli' a quelli della procura di Genova, che aveva indagato Giuttari per falso, in merito alla sua registrazione del colloquio con Canessa.
Secondo la sentenza, Mignini e Giuttari esercitarono "le loro funzioni a fini ritorsivi" e avrebbero avuto comportamenti "vendicativi" nei confronti di chi ritenevano esageratamente critico verso le loro inchieste. Nella fattispecie, secondo la sentenza, i due si sarebbero serviti di intercettazioni e di altri accertamenti personali, indagando quindi in modo illecito su funzionari di polizia, su giornalisti e su magistrati.
Inoltre riportava la sentenza: "La critica al modo di procedere di Mignini è, in definitiva, di avere costantemente dimostrato nei suoi atti una mancanza di adeguata ponderazione e di senso del limite. L'azione penale è obbligatoria ma ciò non significa che il PM debba qualificare in termini di illecito qualsiasi minimo spunto che consenta una vaga lettura in chiave accusatoria".
Quanto a Giuttari, la sentenza stabiliva che: "...le pressanti intimazioni a Mignini travalicano ogni limite possibile nei rapporti fra ufficiale di PG e PM, quasi che il primo possa dirigere l'attività del secondo... la captazione di conversazioni e la loro conservazione per anni rivelano in Giuttari un ben preciso atteggiamento di fondo di tipo vendicativo".
Infine la sentenza spiegava che la lieve differenza delle pene era dovuta al fatto che "le condotte illecite sono state sempre originate da iniziative di Giuttari e a difesa di interessi in via primaria suoi propri, ancorché condivisi e fatti propri da Mignini, ciò che richiede una maggiore severità nei confronti del primo".
Tutto finito? Assolutamente no. La sentenza venne impugnata dagli imputati per i capi che avevano visto la loro condanna, mentre l'assoluzione per le cosiddette "indagini parallele" divenne definitiva.
Il 22 novembre 2011 la Corte d'Appello di Firenze annullò la sentenza di primo grado (sempre del tribunale di Firenze) per incompentenza territoriale e dispose la trasmissione degli atti alla Procura di Torino. In pratica, la Corte di Appello stabilì che, essendo parte in causa nel procedimento un magistrato fiorentino (Canessa), non poteva essere Firenze a esprimersi in merito ma gli atti avrebbero dovuto essere obbligatoriamente trasferiti a Genova (competente per i fatti che riguardino magistrati toscani). Tuttavia, anche la procura ligure aveva avuto un ruolo nella vicenda (fra le persone offese nel procedimento fiorentino c'era un magistrato genovese, il dottor Pinto), così fu disposto che il procedimento passasse alla procura di Torino.
Commentando la sentenza di secondo grado, Mignini la definì "una decisione obbligata. Fin all'inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima".
Le parole gi Giuttari: "Oggi ho visto in faccia la giustizia vera. Questa decisione dimostra che a Firenze non dovevamo essere indagati e tantomeno condannati".
La Procura Generale toscana presentò ricorso in Cassazione, bloccando di fatto il trasferimento a Torino per un altro anno. Nel febbraio del 2013 il ricorso venne respinto dalla Suprema Corte che ratificò la nullità del processo di primo grado e le relative condanne degli imputati.
Trascorse un altro anno. Il PM piemontese, cui gli atti erano stati trasmessi, chiese il rinvio a giudizio per tutti i sette capi di imputazione originariamente contestati ai due imputati, sia quelli per cui erano stati condannati in primo grado sia quelli per cui erano stati assolti. Il GUP, Giorgio Potito, chiamato a pronunciarsi in merito, dispose con sentenza del 15 gennaio del 2014 in tal modo:
▪ non doversi procedere sui reati per i capi di imputazione per cui gli imputati erano già stati assolti in primo grado dal tribunale di Firenze con sentenza divenuta irrevocabile (le famose indagini parallele e il favoreggiamento di Mignini nei confronti di Giuttari);
▪ non doversi procedere per i restanti reati (quelli per cui in primo grado era giunta la sentenza di condanna) perché estinti per prescrizione. Si trattava in questo caso delle accuse relative alle registrazioni e intercettazioni telefoniche nei confronti dell'allora questore di Firenze, De Donno, dei funzionari di polizia, Sgalla e Viola, e dei tre giornalisti non compiacenti e sottoposti a indagine, Tessandori, De Stefano e Fiasconaro.
La sentenza divenne irrevocabile il 5 marzo 2014 per i primi 3 capi d'imputazione e il 3 marzo 2015 per il quarto.
Nel marzo del 2017, infine, il dottor Mignini venne assolto anche dall'inchiesta interna al CSM.
E questa sentenza pose la parola fine alla lunghissima querelle giudiziaria.
In particolar modo, erano state disposte intercettazioni telefoniche verso Vincenzo Tessandori, Roberto Fiasconaro e Gennaro De Stefano.
Il primo, storico giornalista del quotidiano torinese "La Stampa", aveva firmato diversi articoli piuttosto ostili nei confronti dell'operato dei due inquirenti e in alcune telefonate intercettate, risalenti al 2006, li aveva tacciati di essere del tutto incompetenti.
Il secondo, Roberto Fiasconaro, era stato l'autore di alcuni articoli poco lusinghieri sul settimanale "Gente" in cui era evidente che avesse delle fonti interne alla Procura di Firenze da cui riceveva informazioni. Ricordiamo, fra gli altri, l'articolo del 2004 con il titolo "Silurato Giuttari – Indagava sul Mostro di Firenze", in cui riportava notizie che non avrebbero dovuto essere di dominio pubblico.
Gennaro De Stefano, infine, all'epoca scriveva anche lui per la rivista "Gente" e in precedenza era stato vittima di un clamoroso caso di malgiustizia: nel 1992, mentre si stava occupando per il settimanale "Visto" di un delitto avvenuto a Balsorano (AQ), si era convinto dell'innocenza del principale imputato e nei suoi articoli aveva più volte messo in risalto le gravi pecche investigative. Per ritorsione, un poliziotto, funzionario del commissariato di Avezzano, aveva fatto nascondere un involucro contenente circa 23 grammi di cocaina nella sua automobile. Fermato e perquisito, De Stefano era stato arrestato ed era rimasto recluso per quasi due mesi. Solo dopo circa un anno la verità processuale l'aveva scagionato per non aver commesso il fatto, condannando il poliziotto a sei anni e otto mesi di reclusione per abuso, calunnia, falso e spaccio di sostanze stupefacenti.
Una dozzina di anni dopo, nel 2004, De Stefano si ritrovò a essere intercettato e oggetto di indagini da parte di Giuttari e Mignini a causa dei suoi articoli estremamente critici verso il loro operato. Niente di paragonabile a quello che gli era successo in passato, sia ben chiaro. Ancora oggi, non sono in pochi a ritenere che i provvedimenti adottati dai due inquirenti potessero legittimamente rientrare nell'ambito delle loro difficili indagini sui mandanti. Basti pensare che, per quanto la Procura di Firenze avesse intravisto nei metodi dei due inquirenti gli estremi di un reato, alla fine per loro era arrivata una sentenza di completa assoluzione, per quanto - nel caso specifico - per sopraggiunta prescrizione.
Tutt'altra vicenda era, invece, quella che aveva visto protagonista il giornalista e scrittore Mario Spezi, consumatasi proprio nello stesso periodo.
Spezi, classe 1945, marchigiano di nascita ma toscano di adozione, è stato il giornalista che più di ogni altro ha legato il suo nome alla vicenda del Mostro di Firenze, cui ha dedicato sin dal 1974 larga parte della sua vita lavorativa e non solo. Come abbiamo visto nel corso di queste pagine, agli inizi degli anni '80 Spezi si era convinto che l'autore dei delitti fosse il famigerato "Dottor B.", un ginecologo di Scandicci, di cui abbiamo parlato a proposito del delitto di Mosciano nel giugno del 1981.
In seguito era diventato fautore della cosiddetta "Pista sarda" e aveva individuato il Mostro in tale "Carlo", nome fittizio con cui voleva indicare il figlio primogenito di Salvatore Vinci. Anche di questa ipotesi abbiamo ampiamente parlato nel relativo capitolo.
La prima volta che lo Spezi era stato perquisito fu il 2 giugno del 1998. Era da poco uscito il suo ultimo libro "Toscana nera", in cui il giornalista aveva raccontato dell'intervista, nascostamente videoresgistrata, al comandante della caserma dei carabinieri di San Casciano, Artuto Minoliti (vedasi capitolo "Il processo Pacciani"). Su disposizione del procuratore aggiunto Francesco Fleury era stata disposta una perquisizione mirata nella sua casa fiorentina alla ricerca della cassetta. Sequestrata questa, la faccenda delle perquisizioni sembrò terminare lì. Almeno sul momento.
C'è da dire che Spezi era stato sempre fortemente critico nei confronti delle indagini su Pacciani e successivamente sui Compagni di merende, ma ancor di più lo fu nei confronti delle indagini sui mandanti e il secondo livello. Legato da antica amicizia con il dottor Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano, accusato di essere un adepto alla fantomatica setta che aveva commissionato i delitti del Mostro, Spezi si schierò apertamente dalla parte dell'amico, avversando fortemente le indagini di Giuliano Mignini e Michele Giuttari.
Diede così vita a una campagna di stampa tesa a screditare le indagini sui mandanti dei delitti del Mostro e, anche grazie alle numerose conoscenze di cui disponeva, non gli fu difficile organizzare una vasta rete di attacchi mediatici, ivi comprese trasmissioni televisive su canali nazionali, nei confronti delle suddette indagini. La riposta della Procura perugina fu attenzionarlo, intercettarlo e in seguito indagarlo per favoreggiamento nei confronti del Calamandrei.
Da quel punto in poi lo Spezi subì numerose altre perquisizioni, sia nella sua abitazione fiorentina che presso la sua casa natale a Sant'Angelo in Vado (PU). Durante una di queste, venne rinvenuta una pietra grezza a forma di piramide tronca, simile a quella trovata sul luogo del delitto di Calenzano nell'ottobre del 1981. Secondo il verbale di perquisizione, tale pietra sarebbe stata "occultata dietro la porta della sala da pranzo". Su tale rinvenimento avrebbe avuto modo di ironizzare spesso lo stesso Spezi, visto che pietre di quel tipo erano piuttosto comuni nelle case di campagna toscane e solitamente venivano utilizzate appunto come fermaporta.
Fino ad allora erano state semplici scaramucce fra due poteri di uno stato democratico.
La svolta arrivò nel 2006 e sarebbe stata clamorosa. Ma andiamo con ordine.
Un pregiudicato campano residente in Toscana, muratore di professione, tale Luigi Ruocco, venne contattato dallo Spezi e dall'ex poliziotto Ferdinando Zaccaria per una delicata vicenda che aveva per protagonista la figlia del Ruocco. La bimba, con problemi di obesità, era stata in cura presso una psichiatra dell'università di Pisa (iniziali D.M.), la quale aveva su di lei sperimentato uno psicofarmaco antiepilettico, sfruttando un effetto collaterale della molecola, con somministrazioni fino a 10 volte superiori rispetto alla dose massima consentita, senza che la famiglia conoscesse i potenziali effetti collaterali della terapia e andando gravemente a ledere la salute della bambina. La mamma aveva denunciato la dottoressa, la quale era stata condannata dopo tre gradi di giudizio a sei mesi di reclusione dal Tribunale di Pistoia. La psichiatra era stata, peró, assolta dall'ordine dei medici del capoluogo toscano, in quanto, a parere dell'associazione, non aveva commesso nulla di eticamente censurabile e il caso doveva essere considerato una montatura.
Ufficialmente lo Spezi, in qualità di giornalista, e lo Zaccaria, in qualità di amico di famiglia, contattarono il Ruocco per dare visibilità alla vicenda a livello mediatico e dare una mano alla famiglia, palesemente in difficoltà.
Da queste innocue, almeno in apparenza, premesse nacque però il caso cosiddetto di "villa Bibbiani".
Dalle intercettazioni emergeva che da parte del Ruocco era stata individuata una villa nei pressi di Lastra a Signa, presso cui i vari componenti del gruppo intercettato si erano spesso recati come in ricognizione, scattando foto e studiando i luoghi. Tale struttura era appunto villa Bibbiani, di proprietà della famiglia Del Gratta, nel Comune di Capraia e Limite. Successivamente, era stato redatto un appunto con le indicazioni per raggiungere la villa da far pervenire al dottor Gianfranco Bernabei della questura di Firenze. Il fine, secondo la procura di Perugia, era quello di indurre il dirigente di polizia a recarsi presso la villa e ivi rinvenire indizi riconducibili alla vicenda del Mostro di Firenze, posizionati dallo stesso Ruocco, che avrebbero fatto tornare in auge la Pista Sarda.
Come rivelava, difatti, un appunto rinvenuto durante la perquisizione del 26 febbraio 2006 a casa dello Spezi, un casolare nei pressi della villa aveva in passato "dato ospitalità a latitanti sardi tra i quali il famigerato Mario Sale e altri implicati in sequestri di persona...". Inoltre lo stesso appunto rivelava che "...detta casa era anche frequentata dai noti Francesco e Salvatore Vinci, Antonio figlio di Salvatore e fedelissimo dello zio Francesco con il quale era solito consumare furti. Antonio Vinci ha attualmente disponibilità di detto locale in cui regolarmente si reca...".
Nella medesima perquisizione erano stati rinvenuti anche una carta topografica a colori e tre fotografie raffiguranti la facciata e l'arcata laterale di Villa Bibbiani, scattate dallo stesso Spezi.
Per la Procura perugina, erano elementi che fornivano piena prova della condotta criminale del gruppo e nello stesso tempo davano pieno riscontro a quanto era stato appreso dalle intercettazioni telefoniche e dalla testimonianza del Bernabei.
Il 7 aprile 2006, Mario Spezi e Luigi Ruocco vennero arrestati in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare del GIP di Perugia, dottoressa Marina De Robertis, su richiesta del PM Giuliano Mignini. L'accusa per il giornalista era di aver cercato di depistare le inchieste sull'omicidio di Francesco Narducci e sui delitti del mostro di Firenze. A queste si aggiunsero le accuse di concorso in calunnia e di turbativa di servizio pubblico e persino di concorso nell'omicidio del dottor Narducci.
Accuse ovviamente respinte con forza dal giornalista, secondo cui il suo operato era stato unicamente teso a ottenere un importante scoop giornalistico, avendo ricevuto informazioni che nel predetto casolare di villa Bibbiani avrebbero potuto esserci prove concrete che avrebbero incastrato il vero autore dei delitti attribuiti al Mostro di Firenze.
Spezi rimase in carcere per 23 giorni. Stando a quanto riferito dall'avvocato Nino Filastò, uno dei difensori del giornalista, furono vietati "per la gravità dei fatti contestati e sussistendo specifiche ed eccezionali ragioni di cautela" gli incontri tra il detenuto e il proprio difensore. Una decisione che era stata presa dal GIP De Robertis sempre su richiesta del dottor Mignini. Tale divieto venne disposto "per un periodo non superiore ai cinque giorni", un lasso di tempo sufficiente, sempre a detta di Filastò, per impedire a Spezi di vedere i propri avvocati prima dell'interrogatorio di garanzia.
Fu un arresto che fece molto rumore, non solo in Italia, perché sembrò attentare alla libertà di stampa. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana emise un duro comunicato:
"Suscita stupore e preoccupazione l'arresto del giornalista Mario Spezi, da lungo tempo autore di inchieste e controinchieste sul caso de "il mostro di Firenze”". Per questo motivo era stato già indagato con la sconcertante contestazione di "essersi adoperato per demolire le ipotesi accusatorie utilizzando canali televisivi", una sorta di censura al lavoro di indagine giornalistica da parte di chi ha ritenuto, doverosamente, di andare a vedere non solo come siano andate le inchieste giudiziarie sulla vicenda del mostro di Firenze ma anche di cercare di scoprire quali e quanti fatti oscuri nasconda.
A carico del collega sarebbe stato anche ipotizzato il concorso (accusa respinta con forza dal giornalista) nell'omicidio del medico perugino Francesco Narducci, personaggio che era stato collegato alla storia del "mostro". Nei giorni scorsi alcuni giornali hanno pubblicato servizi che danno conto di una serie di ombre non solo sull'intera vicenda, e di oscuri avvertimenti subiti dal collega Spezi. Oggi improvvisamente l'ordine di custodia cautelare. Non è in discussione la funzione della Magistratura, ma è necessario che al più presto vengano chiariti tutti i contorni giudiziari che hanno determinato l'assunzione di un provvedimento così grave, come la privazione della libertà, a carico del collega Spezi. Considerate tutte le implicazioni connesse con l'esercizio della funzione della libera stampa, del diritto di cronaca, della tutela delle fonti professionali, del dovere del giornalista di indagare anche oltre qualsiasi verità ufficiale, la chiarezza è elemento fondamentale per l'indispensabile rapporto di fiducia che deve presiedere attività tanto delicate".
A queste parole fece eco l'associazione per la libertà di stampa "Information Safety and Freedom" che in occasione della domenica di Pasqua fece pervenire allo Spezi un messaggio:
"Un invito a resistere non solo per te, ma anche per la difesa di tutta la nostra categoria e la dignità del nostro mestiere... Questa Pasqua resterà come una delle pagine più nere non solo nella storia del giornalismo italiano, ma anche di quella della nostra Repubblica... Questa brutta vicenda conferma quanto il nostro mestiere sia sempre sottoposto al rischio della censura, e al tentativo di mettere a tacere le voci libere e il libero esercizio della critica anche nei nostri paesi democratici".
Dopo 23 giorni di reclusione, i primi cinque dei quali in isolamento, il Tribunale del riesame annullò l'arresto, giudicando il provvedimento della misura cautelare, disposto dal GIP, infondato.
Alle 12.32 del 29 aprile 2006 Mario Spezi tornò in libertà. Ad attenderlo all'esterno del carcere la moglie Myriam. Le prime parole del giornalista furono di ringraziamento per i suoi avvocati e per il proprio compagno di cella.
In seguito, il Pubblico Ministero Mignini derubricò l'accusa di concorso in omicidio, mantenendo il resto dei capi di imputazione e rinviandolo a giudizio. Spezi venne prosciolto il 20 aprile 2010 dalla sentenza del GUP Paolo Micheli.
Il dottor Mignini intese far ricorso in Cassazione che annullò parte della sentenza con rinvio ad altro GUP, la dottoressa Carla Maria Giangamboni, per il singolo reato di calunnia. Reato che nel frattempo era caduto in prescrizione, cui lo Spezi non intese rinunciare. Venne, dunque, definitivamente assolto.
Esattamente dieci anni dopo il suo arresto, il 9 settembre 2016, all'età di 71 anni, Mario Spezi morì, profondamente debilitato da un male incurabile.
Tutto aveva avuto inizio nel 2002 quando il dottor Ubaldo Nannucci divenne Procuratore Capo di Firenze, in sostituzione per sopraggiunti limiti d'età di Antonino Guttadauro, che a sua volta aveva sostituito Piero Luigi Vigna, il quale era stato invece destinato a incarichi più prestigiosi.
Mentre Guattadauro era stato piuttosto compiacente nei confronti delle indagini condotte da Giuttari, spesso avallandole e sostenendole, Nannucci si mostrò sin da subito abbastanza ostile, tanto che con il suo insediamento cominciarono a venire meno le deleghe che servivano a Giuttari per compiere le proprie indagini.
Accadeva così che, mentre a Perugia si procedeva a spron battuto con le indagini sulla morte del Narducci, a Firenze si viveva una situazione di snervante attesa.
Sul fronte perugino, il 20 maggio del 2002, il professor Giovanni Pierucci presentò la relazione tecnica che gli era stata commissionata dal PM Mignini sul ripescaggio del cadavere del dottor Narducci dal lago Trasimeno (vedasi capitolo precedente). Forse pungolato da tali sviluppi, sul fronte fiorentino, il giorno successivo, Giuttari dapprima presentò una nuova richiesta scritta di deleghe, quindi, nel pomeriggio, incontrò privatamente il Sostituto Procuratore Paolo Canessa, con cui collaborava ormai da anni alla ricerca degli eventuali mandanti per i delitti del Mostro.
Il colloquio fra Canessa e Giuttari venne registrato da quest'ultimo. Un registrazione che - sosterrà Giuttari nelle opportune sedi - era stata eseguita per errore.
Durante il colloquio, Canessa si lasciò andare a qualche considerazione personale, manifestando una certa contrarietà per il comportamento tenuto nella vicenda dal capo del suo ufficio, appunto il dottor Nannucci, definendolo "un uomo non libero", per via di un'antica conoscenza con alcuni personaggi sospettati o comunque oggetto delle indagini di Giuttari, quali il ginecologo Zucconi e l'avvocato Jommi.
Per la cronaca, in seguito Nannucci chiarirà di aver conosciuto lo Jommi in quanto suo compagno di università, ma di non aver mai conosciuto lo Zucconi, bensì suo fratello Gaetano con cui aveva frequentato le scuole superiori.
A ogni modo, Giuttari ritenne opportuno conservare questa - a suo dire involontaria - registrazione e tirarla fuori tre anni dopo, nel 2005, quando il PM di Perugia, dottor Mignini, con cui adesso Giuttari collaborava fittamente per le indagini sui mandanti, presentò un esposto al tribunale di Genova contro il dottor Nannucci, il quale continuava a mostrarsi piuttosto maldisposto nei confronti del poliziotto.
Ricordiamo a tal proposito che nel giugno del 2002, Nannucci non aveva esitato a estromettere Giuttari dalle indagini sulla vicenda delle "Cappelle del commiato", accusandolo, peraltro ingiustamente, di avere passato informazioni riservate alla stampa. E ricordiamo che, invece, era stato proprio Nannucci a passare alla stampa la notizia della lettera di censura ricevuta da Giuttari da due dirigenti della questura fiorentina, Roberto Sgalla e Mario Viola.
L'esposto di Mignini nasceva fondamentalmente perché, secondo lui e Giuttari, nella registrazione durante il colloquio con Canessa emergeva chiara la volontà del Procuratore Capo di Firenze di ostacolare le indagini sui mandanti. Il fulcro risiedeva nella frase di Canessa "Lui non è un uomo libero", trascritta e inviata a Genova come prova contro Nannucci.
Il dottor Canessa, parte offesa nel procedimento giudiziario, testimoniò nel merito il 21 Novembre 2005 davanti al Procuratore Capo di Genova, dottor Giancarlo Pellegrino. Dichiarò di non riconoscere la sua voce in quella registrazione. Di seguito alcuni stralci della sua testimonianza:
"Intendo, in primo luogo, precisare con assoluta fermezza che nessun ostacolo mi è mai stato frapposto nel corso delle indagini per gli omicidi del cd. "Mostro di Firenze" da parte dei capi degli uffici della Procura di Firenze ed, in particolare, dai colleghi Vigna, Guttadauro e Nannucci che si sono succeduti a vertice della Procura... ...Non posso escludere che il dott. Nannucci abbia chiesto in esame la nota della Squadra Mobile e che abbia poi espresso il suo parere in proposito; non ricordo comunque di averne parlato con il dott. Giuttari. Non posso escludere che il parere espresso dal dott. Nannucci fosse negativo nel senso che avesse trovato piuttosto "fumose" le prospettive delle indagini proposte dalla Squadra Mobile. Quello che devo dire con assoluta tranquillità è che, indipendentemente dal parere – legittimo – del Procuratore (parere e non ordine sia ben chiaro) le indagini ritenute utili dal sottoscritto per l'individuazione degli eventuali mandanti (ed anche per fatti in qualche modo connessi) sono state effettuate al di là di quel che sostiene il dottor Giuttari; in particolare, oltre alle indagini sull'avvocato Jommi, sono stati sviluppati gli spunti su Zucconi (la cui moglie è stata mandata a giudizio per rapina nei confronti della moglie di Pacciani), su Spinoso (mandato a giudizio per detenzione di armi e concorso nei reati), Graziano Flavio (mandato a giudizio per frode processuale, calunnia e autocalunnia), Mattei Aurelio, SISDE. L'esito di tali attività non si è rivelato produttivo, tanto che l'unico sviluppo positivo è stato quello su Calamandrei, su impulso proveniente dall'ufficio di Procura...
Esprimo innanzitutto il mio sdegno per il comportamento di un ufficiale di P.G. che registra un colloquio informale, senza informarmene. Si tratta di un comportamento che non merita ulteriori commenti. Vorrei fare notare che una simile iniziativa appare ovviamente diretta a "stimolare" nell'interlocutore considerazioni in qualche modo capziosamente indotte da chi clandestinamente registra il colloquio. Non sono in grado di indicare il periodo di tale conversazione, anche perché incontri con il dottor Giuttari in piazza della Repubblica ricordo di averne fatti diversi. Era il dottor Giuttari che non voleva salire in ufficio e preferiva incontrarmi per strada per parlare delle inchieste... Non mi riconosco nella frase che mi viene attribuita nella trascrizione: "hai capito! Un uomo libero non ti delude! Questo non è libero!"; la registrazione è disturbata e non posso esserne sicuro ma non mi sembra la mia voce e neppure il tipo di espressione mi appartiene...
Voglio aggiungere, infine, che alla fine del 2002 io (con il pieno consenso del dottor Nannucci) e con il collega Mignini ci recammo dal dottor Manganelli, che avevo già conosciuto a Firenze, e ottenemmo appositamente per il dottor Giuttari la formazione del Gruppo Investigativo Delitti Seriali. In conclusione voglio dire che nello svolgimento della mia attività non ho mai ricevuto ostacoli o condizionamenti dal dottor Nannucci, né in queste indagini né in altre; al contrario, mi ha sempre aiutato ed ha discusso sempre con me liberamente le iniziative più idonee per le singole richieste; non solo lo considero uno dei miei maestri in questo mestiere, ma non mi ha mai deluso e l'ho sempre considerato un uomo più che libero".
Venne disposta una perizia fonica dal PM di Genova, titolare del fascicolo, dottor Francesco Pinto. La perizia stabilì che la frase era stata pronunciata dallo stesso Giuttari ed era poi stata trascritta attribuendola alla persona sbagliata, appunto a Canessa.
La posizione del Nannucci, accusato di aver ritardato le indagini sui mandanti dei delitti del Mostro, si concluse con una richiesta di archiviazione per infondatezza di tutte le ipotesi di reato. Nella richiesta, la Procura genovese scriveva: "Tutte le accuse contro Nannucci partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti..." e sosteneva che l'assunto accusatorio nasceva da "una lettura ossessivamente orientata di circostanze disparate, insignificanti e non pertinenti".
Il GUP accolse la richiesta di archiviazione e, a quel punto, a finire iscritto nel registro degli indagati per falso in atto pubblico fu proprio Michele Giuttari assieme ai due suoi collaboratori che avevano trascritto la conversazione, l'ispettore capo Michelangelo Castelli e l'assistente Davide Arena, anch'essi appartenenti al GIDES, la squadra speciale che si occupava a tempo pieno dei delitti che avevano insanguinato le campagne fiorentine.
Giuttari si difese dichiarando alla stampa: "Non è stato fatto alcun falso, non è vero che quella è la mia voce. Io sono siciliano, l'accento di Canessa è toscano. Chiariremo tutto". Ma poi passò all'attacco, denunciando Paolo Canessa, Francesco Pinto e il perito di Genova: "Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta".
A quel punto era guerra totale.
Giuttari venne interrogato a Genova il 12 maggio 2006; il 19 vennero interrogati i suoi due collaboratori.
I legali dell'imputato, avvocati Giovanni Dedola e Andrea Fares, ribadirono che la registrazione era stata eseguita involontariamente e che a certificarne il contenuto era stata "una perizia disposta dal procuratore di Perugia Giuliano Mignini ed elaborata dai carabinieri del RIS". Questa perizia avrebbe in seguito procurato non pochi problemi allo stesso Mignini.
Scontro senza precedenti
Nel frattempo anche la Procura di Firenze voleva vederci chiaro su quanto stava avvenendo. Iniziarono nuove indagini e perquisizioni. A condurre i giochi erano i procuratori fiorentini Luca Turco e Gabriele Mazzotta.Riportiamo alcuni stralci di un articolo del quotidiano "Il Giornale" del 18 ottobre 2006: "...una doppia perquisizione, effettuata ieri nella Procura di Perugia e negli uffici del GIDES, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l'ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Ieri mattina nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull'indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il PM Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell'ufficio del PM Giuliano Mignini, titolare dell'inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell'inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio".
Sul fronte genovese, il 9 novembre 2006, il GUP Roberto Fenizia, pronunciò la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Giuttari e dei due suoi collaboratori perché il fatto non sussisteva e nella motivazione della sentenza, divenuta definitiva, attestava che non c'erano dubbi che la voce che aveva pronunciato la frase "incriminata" appartenesse al dottor Canessa.
I tre poliziotti erano stati assolti, dunque. Ma non era finita qui.
Le indagini che aveva condotto la Procura fiorentina si concretizzarono il 21 aprile del 2008, proprio nei giorni in cui si avviava verso una sentenza di assoluzione il processo contro il farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, quale mandante dei delitti del Mostro di Firenze. La Giudice per le Udienze Preliminari di Firenze, dottoressa Dania Mori dispose il rinvio a giudizio del sostituto procuratore di Perugia, Giuliano Mignini, e nuovamente di Michele Giuttari, entrambi per abuso d'ufficio.
Su Mignini pendeva anche l'accusa di favoreggiamento per aver disposto una propria consulenza audio sulla famosa registrazione del 2002 della conversazione con Canessa. Per l'accusa il PM perugino avrebbe quindi avvantaggiato Giuttari, svolgendo indagini in suo favore. Per la difesa, invece, quella consulenza era stata affidata al RIS da Mignini nel gennaio 2006, mentre Giuttari era finito sotto inchiesta a Genova solo nel maggio 2006. La consulenza disposta da Mignini aveva sì portato al proscioglimento di Giuttari a Genova, ma all'epoca il PM perugino non poteva sapere, considerati i tempi, che la consulenza che aveva disposto avrebbe contribuito a far scagionare alcuni mesi dopo il poliziotto.
Non era comunque tutto qui: la procura di Firenze contestó a Giuttari anche di aver registrato, in maniera illecita, un colloquio con l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e di aver svolto indagini illegittime su altri due funzionari di polizia, Sgalla e Viola, rispettivamente dirigente e funzionario dell'ufficio stampa dell'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, autori della predetta lettera di censura nei suoi confronti.
A Giuttari e Mignini venne infine contestato di aver predisposto intercettazioni e svolto indagini nei confronti di giornalisti non compiacenti verso le indagini sui mandanti.
Difatti, nel 2006 il giornalista de "La Stampa", Vincenzo Tessandori era stato intercettato per oltre due mesi. Anche i giornalisti Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro, autori di alcuni articoli sulla rivista "Gente" piuttosto critici nei confronti delle indagini di Giuttari, erano stati controllati e intercettati nel 2004.
I PM fiorentini Luca Turco e Gabriele Mazzotta ritenevano che questi provvedimenti volessero in realtà condizionare le legittime attività dei giornalisti. Torneremo più avanti su questo punto.
Si era, dunque arrivati a un durissimo scontro fra le due procure. Scriverà a tal proposito il giornalista Alvaro Fiorucci nel suo libro "48 Small. Il dottore di Perugia e il Mostro di Firenze":
"Uno scontro senza precedenti con i piemme fiorentini che perquisiscono gli uffici del piemme perugino e poi vanno a perquisirgli l'abitazione privata e il computer personale".
Il processo venne fissato per il 14 novembre 2008. La requisitoria dell'accusa fu durissima nei confronti del magistrato, del poliziotto e dei loro metodi d'indagine. Una censura a 360 gradi sul loro operato.
Poco più di un anno dopo, il 22 gennaio 2010 arrivò la sentenza. Giuliano Mignini fu condannato a un anno e quattro mesi, mentre Giuttari a un anno e sei mesi, entrambi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso per le indagini sui funzionari di polizia e sui giornalisti non compiacenti. Furono, invece, assolti perché il fatto non sussisteva dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari) relativa ai cosiddetti accertamenti 'paralleli' a quelli della procura di Genova, che aveva indagato Giuttari per falso, in merito alla sua registrazione del colloquio con Canessa.
Secondo la sentenza, Mignini e Giuttari esercitarono "le loro funzioni a fini ritorsivi" e avrebbero avuto comportamenti "vendicativi" nei confronti di chi ritenevano esageratamente critico verso le loro inchieste. Nella fattispecie, secondo la sentenza, i due si sarebbero serviti di intercettazioni e di altri accertamenti personali, indagando quindi in modo illecito su funzionari di polizia, su giornalisti e su magistrati.
Inoltre riportava la sentenza: "La critica al modo di procedere di Mignini è, in definitiva, di avere costantemente dimostrato nei suoi atti una mancanza di adeguata ponderazione e di senso del limite. L'azione penale è obbligatoria ma ciò non significa che il PM debba qualificare in termini di illecito qualsiasi minimo spunto che consenta una vaga lettura in chiave accusatoria".
Quanto a Giuttari, la sentenza stabiliva che: "...le pressanti intimazioni a Mignini travalicano ogni limite possibile nei rapporti fra ufficiale di PG e PM, quasi che il primo possa dirigere l'attività del secondo... la captazione di conversazioni e la loro conservazione per anni rivelano in Giuttari un ben preciso atteggiamento di fondo di tipo vendicativo".
Infine la sentenza spiegava che la lieve differenza delle pene era dovuta al fatto che "le condotte illecite sono state sempre originate da iniziative di Giuttari e a difesa di interessi in via primaria suoi propri, ancorché condivisi e fatti propri da Mignini, ciò che richiede una maggiore severità nei confronti del primo".
Tutto finito? Assolutamente no. La sentenza venne impugnata dagli imputati per i capi che avevano visto la loro condanna, mentre l'assoluzione per le cosiddette "indagini parallele" divenne definitiva.
Il 22 novembre 2011 la Corte d'Appello di Firenze annullò la sentenza di primo grado (sempre del tribunale di Firenze) per incompentenza territoriale e dispose la trasmissione degli atti alla Procura di Torino. In pratica, la Corte di Appello stabilì che, essendo parte in causa nel procedimento un magistrato fiorentino (Canessa), non poteva essere Firenze a esprimersi in merito ma gli atti avrebbero dovuto essere obbligatoriamente trasferiti a Genova (competente per i fatti che riguardino magistrati toscani). Tuttavia, anche la procura ligure aveva avuto un ruolo nella vicenda (fra le persone offese nel procedimento fiorentino c'era un magistrato genovese, il dottor Pinto), così fu disposto che il procedimento passasse alla procura di Torino.
Commentando la sentenza di secondo grado, Mignini la definì "una decisione obbligata. Fin all'inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima".
Le parole gi Giuttari: "Oggi ho visto in faccia la giustizia vera. Questa decisione dimostra che a Firenze non dovevamo essere indagati e tantomeno condannati".
La Procura Generale toscana presentò ricorso in Cassazione, bloccando di fatto il trasferimento a Torino per un altro anno. Nel febbraio del 2013 il ricorso venne respinto dalla Suprema Corte che ratificò la nullità del processo di primo grado e le relative condanne degli imputati.
Trascorse un altro anno. Il PM piemontese, cui gli atti erano stati trasmessi, chiese il rinvio a giudizio per tutti i sette capi di imputazione originariamente contestati ai due imputati, sia quelli per cui erano stati condannati in primo grado sia quelli per cui erano stati assolti. Il GUP, Giorgio Potito, chiamato a pronunciarsi in merito, dispose con sentenza del 15 gennaio del 2014 in tal modo:
▪ non doversi procedere sui reati per i capi di imputazione per cui gli imputati erano già stati assolti in primo grado dal tribunale di Firenze con sentenza divenuta irrevocabile (le famose indagini parallele e il favoreggiamento di Mignini nei confronti di Giuttari);
▪ non doversi procedere per i restanti reati (quelli per cui in primo grado era giunta la sentenza di condanna) perché estinti per prescrizione. Si trattava in questo caso delle accuse relative alle registrazioni e intercettazioni telefoniche nei confronti dell'allora questore di Firenze, De Donno, dei funzionari di polizia, Sgalla e Viola, e dei tre giornalisti non compiacenti e sottoposti a indagine, Tessandori, De Stefano e Fiasconaro.
La sentenza divenne irrevocabile il 5 marzo 2014 per i primi 3 capi d'imputazione e il 3 marzo 2015 per il quarto.
Nel marzo del 2017, infine, il dottor Mignini venne assolto anche dall'inchiesta interna al CSM.
E questa sentenza pose la parola fine alla lunghissima querelle giudiziaria.
Il caso Spezi
Abbiamo visto come fra i capi d'imputazione a carico di Giuttari e Mignini ci fossero le indagini e le intercettazioni, presuntivamente illecite, condotte a danno di alcuni giornalisti che avevano mostrato nei loro articoli di non essere particolarmente benevoli nei confronti delle indagini sui mandanti. Il fine dei due inquirenti, secondo la Procura di Firenze, era punitivo, ritorsivo o al più teso a condizionare il loro lavoro.In particolar modo, erano state disposte intercettazioni telefoniche verso Vincenzo Tessandori, Roberto Fiasconaro e Gennaro De Stefano.
Il primo, storico giornalista del quotidiano torinese "La Stampa", aveva firmato diversi articoli piuttosto ostili nei confronti dell'operato dei due inquirenti e in alcune telefonate intercettate, risalenti al 2006, li aveva tacciati di essere del tutto incompetenti.
Il secondo, Roberto Fiasconaro, era stato l'autore di alcuni articoli poco lusinghieri sul settimanale "Gente" in cui era evidente che avesse delle fonti interne alla Procura di Firenze da cui riceveva informazioni. Ricordiamo, fra gli altri, l'articolo del 2004 con il titolo "Silurato Giuttari – Indagava sul Mostro di Firenze", in cui riportava notizie che non avrebbero dovuto essere di dominio pubblico.
Gennaro De Stefano, infine, all'epoca scriveva anche lui per la rivista "Gente" e in precedenza era stato vittima di un clamoroso caso di malgiustizia: nel 1992, mentre si stava occupando per il settimanale "Visto" di un delitto avvenuto a Balsorano (AQ), si era convinto dell'innocenza del principale imputato e nei suoi articoli aveva più volte messo in risalto le gravi pecche investigative. Per ritorsione, un poliziotto, funzionario del commissariato di Avezzano, aveva fatto nascondere un involucro contenente circa 23 grammi di cocaina nella sua automobile. Fermato e perquisito, De Stefano era stato arrestato ed era rimasto recluso per quasi due mesi. Solo dopo circa un anno la verità processuale l'aveva scagionato per non aver commesso il fatto, condannando il poliziotto a sei anni e otto mesi di reclusione per abuso, calunnia, falso e spaccio di sostanze stupefacenti.
Una dozzina di anni dopo, nel 2004, De Stefano si ritrovò a essere intercettato e oggetto di indagini da parte di Giuttari e Mignini a causa dei suoi articoli estremamente critici verso il loro operato. Niente di paragonabile a quello che gli era successo in passato, sia ben chiaro. Ancora oggi, non sono in pochi a ritenere che i provvedimenti adottati dai due inquirenti potessero legittimamente rientrare nell'ambito delle loro difficili indagini sui mandanti. Basti pensare che, per quanto la Procura di Firenze avesse intravisto nei metodi dei due inquirenti gli estremi di un reato, alla fine per loro era arrivata una sentenza di completa assoluzione, per quanto - nel caso specifico - per sopraggiunta prescrizione.
Tutt'altra vicenda era, invece, quella che aveva visto protagonista il giornalista e scrittore Mario Spezi, consumatasi proprio nello stesso periodo.
Spezi, classe 1945, marchigiano di nascita ma toscano di adozione, è stato il giornalista che più di ogni altro ha legato il suo nome alla vicenda del Mostro di Firenze, cui ha dedicato sin dal 1974 larga parte della sua vita lavorativa e non solo. Come abbiamo visto nel corso di queste pagine, agli inizi degli anni '80 Spezi si era convinto che l'autore dei delitti fosse il famigerato "Dottor B.", un ginecologo di Scandicci, di cui abbiamo parlato a proposito del delitto di Mosciano nel giugno del 1981.
In seguito era diventato fautore della cosiddetta "Pista sarda" e aveva individuato il Mostro in tale "Carlo", nome fittizio con cui voleva indicare il figlio primogenito di Salvatore Vinci. Anche di questa ipotesi abbiamo ampiamente parlato nel relativo capitolo.
La prima volta che lo Spezi era stato perquisito fu il 2 giugno del 1998. Era da poco uscito il suo ultimo libro "Toscana nera", in cui il giornalista aveva raccontato dell'intervista, nascostamente videoresgistrata, al comandante della caserma dei carabinieri di San Casciano, Artuto Minoliti (vedasi capitolo "Il processo Pacciani"). Su disposizione del procuratore aggiunto Francesco Fleury era stata disposta una perquisizione mirata nella sua casa fiorentina alla ricerca della cassetta. Sequestrata questa, la faccenda delle perquisizioni sembrò terminare lì. Almeno sul momento.
C'è da dire che Spezi era stato sempre fortemente critico nei confronti delle indagini su Pacciani e successivamente sui Compagni di merende, ma ancor di più lo fu nei confronti delle indagini sui mandanti e il secondo livello. Legato da antica amicizia con il dottor Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano, accusato di essere un adepto alla fantomatica setta che aveva commissionato i delitti del Mostro, Spezi si schierò apertamente dalla parte dell'amico, avversando fortemente le indagini di Giuliano Mignini e Michele Giuttari.
Diede così vita a una campagna di stampa tesa a screditare le indagini sui mandanti dei delitti del Mostro e, anche grazie alle numerose conoscenze di cui disponeva, non gli fu difficile organizzare una vasta rete di attacchi mediatici, ivi comprese trasmissioni televisive su canali nazionali, nei confronti delle suddette indagini. La riposta della Procura perugina fu attenzionarlo, intercettarlo e in seguito indagarlo per favoreggiamento nei confronti del Calamandrei.
Da quel punto in poi lo Spezi subì numerose altre perquisizioni, sia nella sua abitazione fiorentina che presso la sua casa natale a Sant'Angelo in Vado (PU). Durante una di queste, venne rinvenuta una pietra grezza a forma di piramide tronca, simile a quella trovata sul luogo del delitto di Calenzano nell'ottobre del 1981. Secondo il verbale di perquisizione, tale pietra sarebbe stata "occultata dietro la porta della sala da pranzo". Su tale rinvenimento avrebbe avuto modo di ironizzare spesso lo stesso Spezi, visto che pietre di quel tipo erano piuttosto comuni nelle case di campagna toscane e solitamente venivano utilizzate appunto come fermaporta.
Fino ad allora erano state semplici scaramucce fra due poteri di uno stato democratico.
La svolta arrivò nel 2006 e sarebbe stata clamorosa. Ma andiamo con ordine.
Un pregiudicato campano residente in Toscana, muratore di professione, tale Luigi Ruocco, venne contattato dallo Spezi e dall'ex poliziotto Ferdinando Zaccaria per una delicata vicenda che aveva per protagonista la figlia del Ruocco. La bimba, con problemi di obesità, era stata in cura presso una psichiatra dell'università di Pisa (iniziali D.M.), la quale aveva su di lei sperimentato uno psicofarmaco antiepilettico, sfruttando un effetto collaterale della molecola, con somministrazioni fino a 10 volte superiori rispetto alla dose massima consentita, senza che la famiglia conoscesse i potenziali effetti collaterali della terapia e andando gravemente a ledere la salute della bambina. La mamma aveva denunciato la dottoressa, la quale era stata condannata dopo tre gradi di giudizio a sei mesi di reclusione dal Tribunale di Pistoia. La psichiatra era stata, peró, assolta dall'ordine dei medici del capoluogo toscano, in quanto, a parere dell'associazione, non aveva commesso nulla di eticamente censurabile e il caso doveva essere considerato una montatura.
Ufficialmente lo Spezi, in qualità di giornalista, e lo Zaccaria, in qualità di amico di famiglia, contattarono il Ruocco per dare visibilità alla vicenda a livello mediatico e dare una mano alla famiglia, palesemente in difficoltà.
Da queste innocue, almeno in apparenza, premesse nacque però il caso cosiddetto di "villa Bibbiani".
Villa Bibbiani
Il 21 dicembre del 2005 ci fu la prima di una lunga serie di intercettazioni telefoniche in cui gli inquirenti captarono (o, a seconda delle versioni, credettero di captare) un progetto riconducibile a un'idea di Mario Spezi. Vi erano presuntamente coinvolti lo Zaccaria, il giornalista del "Corriere della Sera" Mario Porqueddu, appunto Luigi Ruocco e il giornalista e scrittore americano Douglas Preston.Dalle intercettazioni emergeva che da parte del Ruocco era stata individuata una villa nei pressi di Lastra a Signa, presso cui i vari componenti del gruppo intercettato si erano spesso recati come in ricognizione, scattando foto e studiando i luoghi. Tale struttura era appunto villa Bibbiani, di proprietà della famiglia Del Gratta, nel Comune di Capraia e Limite. Successivamente, era stato redatto un appunto con le indicazioni per raggiungere la villa da far pervenire al dottor Gianfranco Bernabei della questura di Firenze. Il fine, secondo la procura di Perugia, era quello di indurre il dirigente di polizia a recarsi presso la villa e ivi rinvenire indizi riconducibili alla vicenda del Mostro di Firenze, posizionati dallo stesso Ruocco, che avrebbero fatto tornare in auge la Pista Sarda.
Come rivelava, difatti, un appunto rinvenuto durante la perquisizione del 26 febbraio 2006 a casa dello Spezi, un casolare nei pressi della villa aveva in passato "dato ospitalità a latitanti sardi tra i quali il famigerato Mario Sale e altri implicati in sequestri di persona...". Inoltre lo stesso appunto rivelava che "...detta casa era anche frequentata dai noti Francesco e Salvatore Vinci, Antonio figlio di Salvatore e fedelissimo dello zio Francesco con il quale era solito consumare furti. Antonio Vinci ha attualmente disponibilità di detto locale in cui regolarmente si reca...".
Nella medesima perquisizione erano stati rinvenuti anche una carta topografica a colori e tre fotografie raffiguranti la facciata e l'arcata laterale di Villa Bibbiani, scattate dallo stesso Spezi.
Per la Procura perugina, erano elementi che fornivano piena prova della condotta criminale del gruppo e nello stesso tempo davano pieno riscontro a quanto era stato appreso dalle intercettazioni telefoniche e dalla testimonianza del Bernabei.
Il 7 aprile 2006, Mario Spezi e Luigi Ruocco vennero arrestati in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare del GIP di Perugia, dottoressa Marina De Robertis, su richiesta del PM Giuliano Mignini. L'accusa per il giornalista era di aver cercato di depistare le inchieste sull'omicidio di Francesco Narducci e sui delitti del mostro di Firenze. A queste si aggiunsero le accuse di concorso in calunnia e di turbativa di servizio pubblico e persino di concorso nell'omicidio del dottor Narducci.
Accuse ovviamente respinte con forza dal giornalista, secondo cui il suo operato era stato unicamente teso a ottenere un importante scoop giornalistico, avendo ricevuto informazioni che nel predetto casolare di villa Bibbiani avrebbero potuto esserci prove concrete che avrebbero incastrato il vero autore dei delitti attribuiti al Mostro di Firenze.
Spezi rimase in carcere per 23 giorni. Stando a quanto riferito dall'avvocato Nino Filastò, uno dei difensori del giornalista, furono vietati "per la gravità dei fatti contestati e sussistendo specifiche ed eccezionali ragioni di cautela" gli incontri tra il detenuto e il proprio difensore. Una decisione che era stata presa dal GIP De Robertis sempre su richiesta del dottor Mignini. Tale divieto venne disposto "per un periodo non superiore ai cinque giorni", un lasso di tempo sufficiente, sempre a detta di Filastò, per impedire a Spezi di vedere i propri avvocati prima dell'interrogatorio di garanzia.
Fu un arresto che fece molto rumore, non solo in Italia, perché sembrò attentare alla libertà di stampa. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana emise un duro comunicato:
"Suscita stupore e preoccupazione l'arresto del giornalista Mario Spezi, da lungo tempo autore di inchieste e controinchieste sul caso de "il mostro di Firenze”". Per questo motivo era stato già indagato con la sconcertante contestazione di "essersi adoperato per demolire le ipotesi accusatorie utilizzando canali televisivi", una sorta di censura al lavoro di indagine giornalistica da parte di chi ha ritenuto, doverosamente, di andare a vedere non solo come siano andate le inchieste giudiziarie sulla vicenda del mostro di Firenze ma anche di cercare di scoprire quali e quanti fatti oscuri nasconda.
A carico del collega sarebbe stato anche ipotizzato il concorso (accusa respinta con forza dal giornalista) nell'omicidio del medico perugino Francesco Narducci, personaggio che era stato collegato alla storia del "mostro". Nei giorni scorsi alcuni giornali hanno pubblicato servizi che danno conto di una serie di ombre non solo sull'intera vicenda, e di oscuri avvertimenti subiti dal collega Spezi. Oggi improvvisamente l'ordine di custodia cautelare. Non è in discussione la funzione della Magistratura, ma è necessario che al più presto vengano chiariti tutti i contorni giudiziari che hanno determinato l'assunzione di un provvedimento così grave, come la privazione della libertà, a carico del collega Spezi. Considerate tutte le implicazioni connesse con l'esercizio della funzione della libera stampa, del diritto di cronaca, della tutela delle fonti professionali, del dovere del giornalista di indagare anche oltre qualsiasi verità ufficiale, la chiarezza è elemento fondamentale per l'indispensabile rapporto di fiducia che deve presiedere attività tanto delicate".
A queste parole fece eco l'associazione per la libertà di stampa "Information Safety and Freedom" che in occasione della domenica di Pasqua fece pervenire allo Spezi un messaggio:
"Un invito a resistere non solo per te, ma anche per la difesa di tutta la nostra categoria e la dignità del nostro mestiere... Questa Pasqua resterà come una delle pagine più nere non solo nella storia del giornalismo italiano, ma anche di quella della nostra Repubblica... Questa brutta vicenda conferma quanto il nostro mestiere sia sempre sottoposto al rischio della censura, e al tentativo di mettere a tacere le voci libere e il libero esercizio della critica anche nei nostri paesi democratici".
Dopo 23 giorni di reclusione, i primi cinque dei quali in isolamento, il Tribunale del riesame annullò l'arresto, giudicando il provvedimento della misura cautelare, disposto dal GIP, infondato.
Alle 12.32 del 29 aprile 2006 Mario Spezi tornò in libertà. Ad attenderlo all'esterno del carcere la moglie Myriam. Le prime parole del giornalista furono di ringraziamento per i suoi avvocati e per il proprio compagno di cella.
In seguito, il Pubblico Ministero Mignini derubricò l'accusa di concorso in omicidio, mantenendo il resto dei capi di imputazione e rinviandolo a giudizio. Spezi venne prosciolto il 20 aprile 2010 dalla sentenza del GUP Paolo Micheli.
Il dottor Mignini intese far ricorso in Cassazione che annullò parte della sentenza con rinvio ad altro GUP, la dottoressa Carla Maria Giangamboni, per il singolo reato di calunnia. Reato che nel frattempo era caduto in prescrizione, cui lo Spezi non intese rinunciare. Venne, dunque, definitivamente assolto.
Esattamente dieci anni dopo il suo arresto, il 9 settembre 2016, all'età di 71 anni, Mario Spezi morì, profondamente debilitato da un male incurabile.
Nessun commento:
Posta un commento