Castelletti di Signa


Data: La notte fra Mercoledì 21 e Giovedì 22 Agosto 1968;
Orario: Con buona precisione fra la mezzanotte e mezza e l'una del mattino;
Luogo: Signa, via di Castelletti;
Vittime: Antonio Lo Bianco, 29 anni; Barbara Locci, 31 anni;
Automobile: Alfa Romeo Giulietta targata AR 53442;
Fase Lunare: Un giorno prima del Novilunio (età lunare -1gg) con illuminazione al 2%. Il 22 agosto a Firenze la luna è sorta alle ore 4.16.


Prima del delitto
La mattina del 21 Agosto 1968 l'oligofrenico muratore di origini sarde residente a Lastra a Signa, Stefano Mele, marito della trentunenne sarda Barbara Locci, accusò un malore mentre stava lavorando in un cantiere. Venne dunque accompagnato a casa in via XXIV Maggio.
Nel pomeriggio di quello stesso giorno passarono a casa del Mele sia la futura vittima Antonio Lo Bianco, che tale Carmelo Cutrona, entrambi amanti di Barbara Locci. La Locci, conosciuta in zona come L'Ape Regina per via della sua movimentata vita sessuale, si accordò per la serata con il Lo Bianco. Il Cutrona andò via piuttosto indispettito.
Quella sera i due amanti, Lo Bianco e Locci, andarono al cinema Giardino Michelacci a Signa per vedere un film: "Helga il miracolo dell'amore" secondo l'autore Giuseppe Alessandri o più probabilmente "Nuda per un pugno di eroi" secondo l'avvocato Nino Filastò.
Con loro c'era il piccolo Natalino Mele, 7 anni non ancora compiuti, figlio della Locci e di Stefano Mele. Il signor Elio Rugi, direttore del cinema, avrebbe dichiarato in seguito di non aver notato il bambino e che in sala, dopo la coppia, era entrata solo un'altra persona.
Il film terminò attorno alle 00:15. Risaliti in macchina, il bambino si addormentó sul sedile posteriore e i due amanti - seduti davanti - ne approfittarono per appartarsi in via di Castelletti, nei pressi del cimitero di Signa, lungo l'argine del torrente Vingone. Proprio mentre cominciavano le loro effusioni amorose, partì l'azione omicidiaria.
A quel punto era circa mezzanotte e mezza o poco più.

Scena del Crimine
Otto colpi di pistola totali attinsero i due amanti. Non ci fu utilizzo di arma bianca. A sparare era stata con ottima probabilità una Beretta Calibro 22 LR serie 70, arma che parecchi anni dopo sarebbe divenuta famosa come la pistola del Mostro.
I proiettili erano Winchester e sul fondello riportavano la lettera H. Come si appurerà in seguito questi proiettili appartenevano a una partita prodotta all'incirca nel 1966.
Durante la fase delittuosa (oggetto comunque di numerosi dibattiti) il killer aprì lo sportello anteriore sinistro della vettura ed esplose parte dei colpi dall'interno. Gli spari da distanza estremamente ravvicinata svegliarono il piccolo Natalino Mele.
Quello che avvenne dopo è tuttora completamente incerto, mai si è fatta chiarezza in merito e ancora oggi costituisce il mistero più fitto dell'intera vicenda riguardante il Mostro di Firenze.


Dopo il delitto
Alle 2.00 precise del mattino, squillò il citofono dell'abitazione della famiglia De Felice, sita a poco più di 2 km dal luogo del delitto, in Campi Bisenzio, frazione Sant'Angelo a Lecore, via del Vingone 154.
Quando il padrone di casa si affacciò alla finestra per vedere chi avesse suonato si ritrovò davanti il piccolo Natalino Mele, senza scarpe, con ai piedi esclusivamente un paio di calzini, che disse esattamente le seguenti parole: "Aprimi la porta che ho sonno e il babbo è a letto malato. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mamma e lo zio che sono morti in macchina."
L'impressione che si ebbe all'epoca e che ancora oggi si potrebbe avere è di frasi imparate a memoria e ripetute meccanicamente. Il bambino inoltre raccontò al De Felice di aver fatto tutta la strada da solo: "Era buio, tutte le piante si muovevano, non c'era nessuno. Avevo tanta paura. Per farmi coraggio ho detto le preghiere, ho cominciato a cantare "La tramontana"... La mamma è morta, è morto anche lo zio. Il babbo è a casa malato."
All'inizio nessuno credette che Natalino potesse aver compiuto il tragitto dal luogo del delitto fino all'abitazione del De Felice da solo in piena notte e scalzo, tanto più che il percorso era lungo e piuttosto accidentato. Vennero allertati i carabinieri e verso le tre del mattino venne trovata grazie alle indicazioni piuttosto precise del bambino l'automobile con le due vittime all'interno.
Non essendo intenzione di questi scritti descrivere o analizzare minuziosamente le dinamiche dei delitti, a meno che non siano necessarie ai fini della narrazione strettamente mostrologica, non sarà abitudine di quest'opera dilungarsi troppo su eventuali traiettorie dei colpi, fori di ingresso/uscita e amenità simili. Ai nostri fini è sufficiente affermare che la vettura venne ritrovata con lo sportello posteriore destro socchiuso, il finestrino anteriore sinistro leggermente abbassato, quello posteriore sinistro abbassato per metà. Infine aveva l'indicatore di direzione destro acceso.
All'interno la Locci sedeva sul sedile di guida in una posizione quasi naturale, sicuramente diversa da quella che aveva nel momento in cui era iniziata l'azione omicidiaria, essendo stata attinta alla schiena dai colpi d'arma da fuoco. La catenina che portava era spezzata, come se le fosse stata strappata con violenza, il che risultava compatibile con una sottile abrasione sul collo. Lo schienale del suo sedile era alzato. Barbara sembrava inoltre essere stata ricomposta nell'abbigliamento, presumibilmente dallo stesso autore dell'omicidio o da un suo complice; si è scelto di sottolineare il predicato verbale, perché - sebbene sia accertato che il suo cadavere fosse stato manipolato dopo l'omicidio - evidenze documentali sul fatto che fosse stata rivestita o che le fossero state sollevate le mutandine non sono state riscontrate; la locuzione infatti che solitamente si riporta è "verosimilmente ricomposta".
Il Lo Bianco era sdraiato sul sedile passeggero, lo schienale reclinato, con i pantaloni slacciati, le mani giunte in grembo come nell'atto di ricomporsi e il piede sinistro scalzo. La scarpa dell'uomo era sul tappetino anteriore, poggiato allo sportello sinistro dell'automobile, tant'è che quando i carabinieri lo aprirono, la calzatura cadde all'esterno. Fra il sedile e il montante dello sportello lato passeggero venne rinvenuto un borsello da donna aperto con all'interno circa 25.000 lire; il borsello sembrava essere stato trafugato ma non risultò mancare nulla. Anche in questo caso si è scelto di sottolineare il predicato verbale perché evidenze documentali sulla circostanza che la borsa sia stata effettivamente trafugata non ve ne sono, tuttavia il fatto che sia stata trovata aperta potrebbe lasciarlo intendere. Tra il sedile anteriore e quello posteriore vennero infine rinvenute le scarpe di Natalino.
Partirono immediatamente le indagini.
Il primo sospettato fu ovviamente il marito della Locci. Quando, fra le sei e le sette del mattino, i carabinieri giunsero a casa di Stefano Mele, costui era vestito di tutto punto e aveva le mani sporche di grasso. Inoltre non parve granché interessato alle sorti della moglie e del figlio che pure - a suo dire - aveva atteso tutta la notte. Il brigadiere Gerardo Matassino del Nucleo Investigativo dichiarò infatti che Stefano Mele si informò di che fine avessero fatto "con tale fare che lascia chiaramente intendere che ne conosce già la sorte."
Di fronte alle domande delle forze dell'ordine, il Mele dichiarò, riferendosi al giorno prima: "Ero a letto malato". Curiosamente la stessa locuzione pronunciata da Natalino. Il primo sospetto dei carabinieri fu ovviamente che Stefano Mele avesse commesso il delitto, avesse accompagnato il figlio a casa dei De Felice e durante il tragitto lo avesse istruito su cosa dire.
Le indagini portarono però a scoprire che la Locci aveva numerosi amanti e il marito tollerava tranquillamente la situazione. Sembrò dunque strano che costui avesse commesso un omicidio per gelosia o vendetta. Inoltre il Mele, personaggio estremamente limitato da un punto di vista intellettivo, era sprovvisto di patente e di un'automobile (possedeva esclusivamente una biciletta), quindi difficilmente (anche se non aprioristicamente impossibile) avrebbe potuto raggiungere il luogo del delitto da casa sua senza un adeguato mezzo di locomozione. La distanza fra casa del Mele e il cinema Giardino Michelacci a Signa è quantificabile in circa due chilometri e mezzo. Grosso modo simile è la distanza fra il cinema e il luogo dell'omicidio. In totale fu valutata quindi una distanza di una decina di chilometri fra andata e ritorno per commettere l'omicidio.
Dal momento in cui, quella stessa mattina, il Mele venne portato in caserma e interrogato, diede il via a una lunghissima sequela di dichiarazioni in cui a turno accusò alcuni amanti della moglie, cambiando di volta in volta e continuamente versione fino a essere giudicato completamente inattendibile.


Le dichiarazioni di Stefano Mele
1. Erano circa le 9.40 di mattina del 22 agosto 1968 quando Stefano Mele venne interrogato per la prima volta dal maresciallo Filippo Funari. Si dichiarò subito estraneo al delitto e avanzò sospetti verso due amanti di sua moglie. Uno era un manovale sardo di nome Francesco Vinci, l'altro un ventenne di origine siciliane di nome Carmelo Cutrona. A tal proposito, il Mele dichiarò: "Francesco Vinci, un amante di mia moglie, a giugno l'ha minacciata di morte. Carmelo Cutrona è un altro amante di Barbara e quando ieri pomeriggio è venuto a casa si è molto turbato a veder lì Enrico" (il Mele chiamava il Lo Bianco con il nome di Enrico, NdA).
Quello stesso pomeriggio vennero convocati in caserma Francesco Vinci e il Cutrona; qui i tre sospettati furono sottoposti alla prova del guanto di paraffina (utile per verificare se avessero utilizzato un'arma da fuoco). La prova risultò negativa per Francesco Vinci, leggermente positiva per Stefano Mele (che però si era presentato quella mattina con le mani sporche di grasso) e positiva per il Cutrona, il quale tuttavia utilizzava nella propria attività prodotti come nitrati che avrebbero potuto inficiare l'esito della prova.
Al termine, i tre uomini vennero rimandati alle rispettive abitazioni, il che almeno per quanto riguarda Stefano Mele è piuttosto strano, considerando che gli venne a questo modo concessa la possibilità di confrontarsi con il piccolo Natalino.
2. Infatti, il giorno successivo Stefano Mele si presentò in caserma accompagnato del cognato Pietro Mucciarini, marito di sua sorella Antonietta, il quale firmò come testimone il verbale delle 11.30. Durante questo secondo interrogatorio Mele ritirò le accuse contro Francesco Vinci e cominciò ad accusare il di lui fratello maggiore, Salvatore Vinci, anch'egli amante di sua moglie Barbara. A tal proposito il Mele dichiarò: "È lui che la minacciava di morte. Anzi, un giorno quando gli chiesi di restituirmi un debito di 300.000 lire mi disse: Ti faccio fuori la moglie e siamo pari con il debito". Si noti che in questa occasione il Mele capovolge (forse di proposito, forse no) i termini di un prestito di denaro avvenuto fra lui e Salvatore Vinci. Era stato infatti Salvatore a prestare alla famiglia Mele una cifra piuttosto cospiscua quando il Mele era rimasto vittima di un incidente stradale.
Salvatore Vinci venne rintracciato ma presentò un alibi che sul momento parve piuttosto solido. Disse che aveva passato la serata a giocare a biliardo al Circolo dei Preti a Prato in compagnia di due amici, Silvano Vargiu e Nicola Antenucci. Venne lasciato andare.
Solo molti anni dopo, si scoprirà che tale alibi era probabilmente falso.
3. Quello stesso pomeriggio il Mele cambiò nuovamente versione e confessò di essere stato lui stesso l'autore del duplice delitto. Venne dunque portato sul luogo dell'omicidio ma dimostrò di non sapere bene come arrivarci. Una volta in loco descrisse le modalità del delitto e la scena del crimine, fornendo alcuni particolari che si rivelarono corretti, come la freccia da lui azionata per sbaglio mentre ricomponeva i vestiti sul cadavere della moglie e trovata accesa al rinvenimento della vettura. Inoltre il Mele riportò correttamente il numero di colpi sparati durante l'azione omicidiaria; per contro, c'è da sottolineare che secondo numerose dichiarazioni - tra cui quella del colonnello Olinto Dell'Amico - quando al Mele venne messa in mano una pistola per fare una simulazione del duplice omicidio, costui diede l'idea di non sapere neanche come si maneggiasse.
4. Quella stessa sera, nel verbale delle 21.30 (la cui trascrizione a opera del blogger Omar Quatar è rintracciabile al seguente link), il Mele integrò la sua confessione, tornando a coinvolgere nel delitto Salvatore Vinci. Dichiarò infatti che la notte dell'omicidio, attorno alle 23.30, era andato a fare un giro in piazza IV Novembre e qui aveva incontrato il Vinci. Parlando, gli aveva riferito che sua moglie era uscita con il Lo Bianco e a quel punto Salvatore lo aveva spinto a farla finita una volta per tutte. Secondo il racconto del Mele, la pistola gliel'aveva fornita proprio Salvatore, il quale l'aveva accompagnato sul luogo del delitto e l'aveva incitato a sparare. Dopo aver commesso il duplice omicidio, il Mele aveva buttato via l'arma ed era fuggito senza neanche curarsi di Natalino che nel frattempo si era svegliato e l'aveva chiamato a gran voce: "Babbo!"
In questa occasione gli investigatori mostrarono al Mele una pistola calibro 9 d'ordinanza per avere delucidazione sull'arma usata nel delitto. Il Mele affermò che la pistola di Salvatore Vinci aveva la canna molto più lunga, come quella per il tiro a segno. La descrizione che fa il Mele è senz'altro coerente con il modello d'arma descritto dal perito, colonnello Innocenzo Zuntini, tuttavia appare strano il riferimento a un'arma da tiro a segno, considerando che il Mele aveva già dimostrato di non avere alcuna conoscenza in fatto di armi. Secondo la mostrologia odierna e passata, la sua appare pertanto una dichiarazione per nulla genuina.
5. Il mattino successivo (24 agosto), dopo che le ricerche della pistola avevano dato esito negativo, Stefano Mele cambiò nuovamente versione e affermò di non averla buttata via, ma di averla riconsegnata a Salvatore Vinci.
Frattanto anche il piccolo Natalino Mele riferì alle forze dell'ordine di aver visto subito dopo l'omicidio "Salvatore fra le canne", dove il riferimento a Salvatore sembrò palesemente proprio quello al Vinci. Più tardi, messo alle strette, Natalino confessò che a dirgli di nominare Salvatore era stato lo "zio Piero" (personaggio in seguito identificato nello zio del bambino, Pietro Mucciarini).
L'accenno allo "zio Piero" appare una delle poche dichiarazioni spontanee di Natalino, probabilmente l'unica non suggerita o imposta da qualcuno, dato che né gli inquirenti, né tanto meno la famiglia Mele avevano alcun interesse che il bambino facesse il nome del Mucciarini.
A tal proposito, molti anni dopo verrà rinvenuto un biglietto nella cella di Stefano Mele che testimonierà proprio la preoccupazione della sua famiglia per il riferimento di Natalino allo zio Piero (vedasi capitolo Mele e Mucciarini).
Emerge dunque chiaramente che da un lato Stefano Mele accusava Salvatore Vinci, dall'altro il Mucciarini convinceva Natalino a fare anch'egli il nome di Salvatore, in modo da far convergere i sospetti sul manovale sardo, quasi a volerlo definitivamente incastrare.
6. Tuttavia, messo a confronto con Salvatore Vinci, Stefano Mele scoppiò quasi subito a piangere. Chiese perdono per averlo ingiustamente accusato e tornò a puntare il dito contro Francesco Vinci. Sostenne infatti che in realtà la pistola era di Francesco, che era stato Francesco ad accompagnarlo sul luogo del delitto con la sua Lambretta e che lo stesso Francesco aveva sparato ai due amanti e che lui (il Mele) aveva solo assistito al delitto ma non vi aveva partecipato. Dichiarò infine che la pistola l'aveva tenuta il Francesco Vinci, posizionandola nel vano porta-oggetti della sua Lambretta e che era stato lo stesso Francesco ad accompagnare Natalino a casa dei De Felice.
Quello stesso pomeriggio venne arrestato Francesco Vinci.
7. I Carabinieri condussero Natalino Mele sulla stradina del Vingone per effettuare la ricostruzione del percorso compiuto dal bambino. Dopo aver insistito sulla versione iniziale e cioè che aveva raggiunto da solo la casa dei De Felice, il bambino, minacciato dai carabinieri di dover rifare quel percorso di notte tutto solo se non avesse detto la verità, dichiarò di essere stato accompagnato dal padre fino al ponticello prospiciente la casa dei De Felice.
8. Considerando che la prova del guanto di paraffina su Francesco Vinci era risultata negativa e che ulteriori indagini accertarono che in quei giorni la sua Lambretta era ferma dal meccanico, gli indizi a carico del manovale sardo si basavano esclusivamente sulle accuse di Stefano Mele. Vi fu un breve confronto fra il Mele e Francesco Vinci, al termine del quale un sempre più confuso Stefano cambiò ancora versione e tornò ad accusare Carmelo Cutrona, altro amante della moglie. Anche il confronto con il Cutrona mise in risalto le contraddizioni del racconto del Mele, finché questi, pressato dagli investigatori, sbottò: "Se non è stato l'uno, è stato l'altro!". Una frase importante perché poteva anche dare l'idea di come il Mele in definitiva non sapesse assolutamente nulla di quanto affermava.
9. Quando gli venne prospettata la possibilità di un confronto con il figlio (il quale, come abbiamo visto, dopo diverse incertezze aveva cominciato a sostenere di essere stato accompagnato dal padre quella notte), Stefano Mele confermò in lacrime di aver accompagnato lui stesso Natalino dai De Felice; nel prosieguo degli interrogatori non seppe spiegare in alcun modo come fosse poi tornato a casa da via del Vingone, né come in precedenza avesse raggiunto il luogo dell'omicidio (ricordiamo che il Mele era sprovvisto di automobile). Si assunse a ogni modo interamente la responsabilità del delitto e scagionò tutti gli amanti della moglie. In nottata vennero così scarcerati Francesco Vinci e Carmelo Cutrona.
Stefano Mele venne considerato l'unico autore del duplice omicidio.
10. Vista l'incredibile sequenza di ritrattazioni e accuse che rivelavano una psicologia quanto meno contorta, il 27 Agosto il magistrato Antonino Caponnetto richiese un esame psichiatrico per il Mele.
Tale esame fu effettuato dal professore Franco Barontini e dal dottor Bernardo Sacchettini, le cui conclusioni certificavano "...uno stado di infermità mentale tale da scemare grandemente la sua capacità di intendere e di volere..." e dichiaravano il Mele "affetto da oligofrenia di medio grado... ma non da considerare come persona socialmente pericolosa".


Il processo a Stefano Mele
Il 30 settembre 1969 il Sostituto Procuratore Antonio Spremolla richiese formalmente di rinviare a giudizio il Mele per i seguenti reati: duplice omicidio commesso da solo o con l'eventuale complicità di altre persone, triplice calunnia e detenzione e porto abusivo di arma da fuoco.
Il 9 marzo del 1970 si aprì il Processo presieduto dal dottor Saverio Coniglio. La Pubblica Accusa era sostenuta dal già citato dottor Spremolla. La difesa era stata affidata agli avvocati Sergio Castelfranco e Dante Ricci (quest'ultimo diciannove anni prima aveva difeso un giovanotto di nome Pietro Pacciani dall'accusa di omicidio nei confronti di un cenciaiolo mugellano). Il ruolo di Parte Civile era svolto dagli avvocati Carlo Grassini per la madre del Lo Bianco e Leonardo Petranelli per la di lui moglie, la signora Rosalia Barranca.
Durante il dibattimento, Mele seguitò a indicare Francesco Vinci come autore del duplice omicidio, relegando per se stesso il ruolo di semplice osservatore. A tal proposito dichiarò:
"...Francesco Vinci venne a prendermi a casa con il motorino. Mia moglie era andata via verso le 21 con Lo Bianco e il bambino, e Vinci arrivò circa alle 22; mi portò nei pressi del cinema di Signa. Vedemmo uscire mia moglie e Lo Bianco; misero a dormire il bambino sul sedile posteriore della Giulietta e si avviarono lentamente in macchina verso quella stradina di campagna; li seguimmo a distanza. Fermato il motorino e fatta un po' di strada a piedi, ci avvicinammo alla macchina e lui sparò dal finestrino dello sportello posteriore abbassato a metà; io rimasi vicino, ma non intervenni neanche per aggiustare i cadaveri: lo fece il Vinci, il quale se ne andò con l'arma, mentre io prendevo in collo il bambino, facendo quasi tre chilometri a piedi, fino alla casa dei De Felice, dove suonai lasciando il ragazzo".
Quasi a voler confermare le parole del Mele, giunse la testimonianza di Salvatore Vinci che dichiarò di aver saputo dalla moglie di suo fratello, la signora Vitalia Melis, che Francesco possedeva una pistola e che la nascondeva regolarmente nel vano portaoggetti della propria Lambretta.
La Melis smentì di aver mai dichiarato alcunché di simile al cognato Salvatore e ribadì gli alibi che aveva fornito in precedenza al marito. Lo stesso Francesco Vinci rigettò tutte le accuse. Infine il piccolo Natalino dichiarò che l'unica persona vista al suo risveglio in auto, la notte dell'omicidio, era stato il padre e che dal padre stesso era stato accompagnato dai De Felice.
Al termine del dibattimento, il PM Spremolla chiese per il Mele una condanna a 27 anni di carcere più 3 anni di custodia in casa di cura. Addusse come movente del delitto la tardiva gelosia del marito nei confronti della moglie fedifraga.
La difesa del Mele ammise la presenza dell'imputato sul luogo del delitto, ma solamente come spettatore, spingendo per l'esistenza di un secondo uomo che aveva eseguito materialmente il delitto.
Il 25 marzo 1970, dopo appena diciassette giorni di dibattimento e dopo sole tre ore di consiglio, Mele fu condannato a 16 anni e 10 mesi di reclusione per omicidio volontario nei confronti di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci e per le calunnie a danno di Carmelo Cutrona e dei due Vinci. Non gli venne riconosciuta l'attenuante del delitto d'onore (in vigore fino al 1981), tuttavia gli vennero riconosciute l'infermità mentale e le attenuanti generiche, la sua non disposizione a delinquere accertata da una perizia psichiatrica e dall’assenza di precedenti penali.
In appello gli anni di carcere furono ridotti a 14. Successivamente la Cassazione annullò la Sentenza della Corte di Assise di Appello di Firenze e rinviò il nuovo processo d'appello a Perugia. Il 12 aprile 1973 arrivò la condanna definitiva, che fu stabilita a 13 anni di reclusione.
Per molto tempo calò dunque il sipario su questa storia, almeno fino al 1982 quando, in piena psicosi da delitti del Mostro di Firenze, si venne a scoprire in maniera abbastanza nebulosa che la pistola con cui il MdF compiva i suoi delitti era la stessa con cui erano stati uccisi Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Non solo, anche i proiettili usati dal Mostro appartenevano alla stessa partita dei proiettili usati in occasione del delitto del 1968.


Particolarità a Signa
● I proiettili usati per il delitto furono Winchester a palla ramata. Sul fondello dei bossoli era impressa quella che diventerà la famigerata lettera H.
● Nel redigere il rapporto sul delitto, il già citato brigadiere Gerardo Matassino, pur descrivendo correttamente bossoli e proiettili, sbagliò clamorosamente la marca, riportando testualmente che erano "prodotti dalla Ditta Giulio Fiocchi di Lecce". Questo errore ha fatto nascere col tempo le più disparate teorie complottistiche, come avremo modo di vedere in seguito. A fare chiarezza sul punto, ci penserà qualche settimana dopo il colonnello Innocenzo Zuntini che, nell'omonima e celebre perizia, parlerà chiaramente di proiettili Winchester.
Nota a margine: Alcuni anni dopo, nel 1974, il brigadiere Matassino divenne comandante della stazione dei carabinieri di Casal di Principe (CE), finendo a libro paga di Francesco Schiavone, detto Sandokan, temuto capo del clan camorristico dei casalesi. Nel 1982, durante un conflitto a fuoco fra carabinieri e camorristi, perse la vita Mario Schiavone, giovane nipote del boss Francesco. Lo stesso Sandokan obbligò Matassino (pare anche schiaffeggiandolo in pubblica piazza) a rivelargli il nome del carabiniere che aveva sparato sul nipote. Matassino indicò il ventenne Salvatore Nuvoletta, il quale qualche giorno dopo venne freddato da un commando armato. Come verrà accertato in seguito, in realtà Nuvoletta non solo non aveva sparato al nipote del boss, ma non aveva neanche partecipato al conflitto a fuoco. Matassino aveva infidamente fatto il suo nome semplicemente perché credeva che Nuvoletta nutrisse sospetti nei suoi confronti, avesse cioè intuito che lui era "stipendiato" dai casalesi.
Per maggiori dettagli su questa triste storia, riportata per puro dovere cronachistico, si può fare riferimento al seguente articolo di "Repubblica".
● Ritornando al duplice omicidio di Signa, la borsa della Locci era stata presumibilmente manomessa dall'autore del duplice omicidio e questo particolare rappresenta un'importante analogia con alcuni dei delitti successivi attribuiti al MdF o comunque connessi dalla stessa pistola.
● Come emerge dal confronto fra il PM Paolo Canessa e il colonello Olinto Dell'Amico durante un'udienza del Processo Pacciani (22 aprile 1994), in questo delitto l'assassino aprì lo sportello anteriore sinistro dell'automobile prima di esplodere alcuni colpi. In pratica sparò sulle vittime senza che ci fosse la barriera dello sportello o del finestrino. È l'unico delitto fra quelli storicamente attribuiti al MdF in cui si registra una dinamica di questo tipo. In tutti gli altri il killer non aprirà mai lo sportello della macchina della coppia prima di aver svuotato l'intero caricatore.
● Come già detto, la sera dell'omicidio, Locci e Lo Bianco erano stati al cinema. La cassiera del cinema sembrò sostenere che un uomo seguisse la coppia sia all'ingresso che all'uscita del cinema. Non si sa bene quanto sia attendibile questa testimonianza, considerando anche che la certa presenza di Natalino era stata messa in dubbio dalla cassiera stessa e dal gestore del cinema. A questo proposito però si deve considerare che il film proiettato quella sera era vietato ai minori e quindi può esser normale una certa ritrosia da parte di tali persone a confermare la presenza del bambino.
Importante Durante il processo al Mele emerse che qualcuno in motorino nei giorni precedenti all'omicidio avesse seguito la Locci e avesse provato qualche approccio con lei, fino a diventare molesto. Pare anche che prima del delitto la Locci avesse detto più volte di temere di essere sparata. Questo particolare lo riportò in dibattimento un testimone di nome Giuseppe Barranca, fratello della moglie di Antonio Lo Bianco. Barranca affermò che nei giorni precedenti all'omicidio aveva provato a convincere la Locci ad appartarsi in macchina con lui, ma la donna aveva rifiutato dicendo: "Potrebbero spararci mentre siamo in macchina". Al che l'uomo non aveva insistito e aveva riaccompagnato la donna a casa. Tutto questo, sempre stando alla testimonianza del Barranca, avveniva mentre la coppia era nei pressi del luogo in cui in seguito si sarebbe verificato il duplice omicidio.
Anche Francesco Vinci confermò in sede processuale che Barbara Locci era seguita e minacciata da qualcuno in motorino e riferì alcuni episodi in cui lui stesso aveva assistito alle molestie da parte di questo imprecisato personaggio nei confronti di Barbara.
Molti mostrologi, in special modo Sardisti (seguaci della pista sarda, vedasi l'Universo Mostrologico), ritengono tuttavia che tali dichiarazioni di Francesco Vinci fossero mendaci e che in realtà fosse lui a seguire e minacciare la Locci, di cui - a detta di tutti - era morbosamente geloso. Francesco, dunque, non aveva fatto altro che cogliere l'occasione offerta dalle dichiarazioni del Barranca per far ricadere i sospetti su un misterioso e mai identificato molestatore di Barbara.
Altre frange mostrologiche vedono invece nelle dichiarazioni del Barranca (e di conseguenza del Vinci) un capo d'accusa nei confronti di una qualsiasi altra persona, esterna al clan dei sardi e forse mai rientrata nelle indagini, ossessionata per un qualunque motivo dalla Locci; un'ossessione che poteva derivare dal desiderio verso questa donna così disinibita, ma anche dalla repulsione che costei gli procurava e dalla voglia dunque di punirla per la sua vita dissoluta.
Vedremo inoltre come esista un certo numero di mostrologi, cosiddetti Lottiani (anche qui vedasi l'Universo Mostrologico), che credono che il futuro reo-confesso Giancarlo Lotti fosse l'unico autore della catena di omicidi storicamente attribuiti al MdF. Questa teoria che potremmo chiamare per comodità Teoria Segnini dal nome del blogger che più degli altri l'ha fatta propria, vede proprio il Lotti, nel 1968 sprovvisto di patente, girare in motorino, pedinare e minacciare la Locci.
A sostegno di questa tesi c'è il fatto che la Locci per un certo periodo aveva abitato alla Romola, frazione di San Casciano, paese in cui vivevano i futuri compagni di merende. Qui il Lotti potrebbe averla conosciuta o semplicemente aver sentito parlare di lei, considerando che a causa della sua frenetica attività sessuale, la Locci era molto chiacchierata. Invaghitosi di quella donna di facili costumi, il Lotti avrebbe iniziato a seguirla anche dopo il suo trasferimento a Lastra a Signa.
Contro questa ipotesi c'è la distanza fra Lastra a Signa e San Casciano: circa 20 km da percorrere in motorino per seguire una donna. Una distanza non impossibile ma sicuramente importante, specie se consumata per diversi giorni di seguito. È anche vero che in quegli anni, in motorino si percorrevano distanze considerevoli, essendo molto meno diffuso l'utilizzo dell'automobile.
È opportuno a ogni modo sottolineare che non c'è alcuna prova che la vicenda dell'uomo che pedinava la Locci in motorino fosse davvero connessa al suo assassinio. L'unica cosa che si può affermare è che nei giorni precedenti all'omicidio, Barbara Locci (curiosamente come altre vittime femminili del futuro mostro di Firenze) aveva dichiarato di temere o comunque di essere infastidita da qualcuno.
● Abbiamo già fatto notare come per una curiosa coincidenza (o forse no!) la Locci avesse abitato anni prima alla Romola, frazione di San Casciano, dunque vicinissima a due di quelli che in seguito sarebbero diventati i compagni di merende: Giancarlo Lotti e Mario Vanni; mentre il futuro indagato Pietro Pacciani all'epoca abitava ancora nel Mugello.
● A proposito di Pacciani, durante il processo a suo carico è emerso come nel 1968 la sua ex fidanzata, Miranda Bugli, abitasse proprio a Lastra a Signa, non troppo lontano dall'abitazione della famiglia Mele e estremamente vicina a quella del Lo Bianco. Come vedremo nel capitolo dedicato al Processo, questo ha portato la Procura di Firenze a ipotizzare che Pacciani, ossessionato dalla sua ex fidanzata, ne seguisse gli spostamenti, lasciandosi di volta in volta alle spalle una scia di sangue.
Esiste, a questo proposito, un ristretto gruppo di Mostrologi, cosiddetti Merendari, che ritengono che i futuri compagni di merende, Pacciani e Vanni, si conoscessero e frequentassero Lastra a Signa già nel 1968. Questa idea nasce dalle dichiarazioni rilasciate dal testimone Lorenzo Nesi, amico di Pacciani e soprattutto del Vanni. A oggi, tuttavia, non esistono riscontri documentali che avvallino tali dichiarazioni, al contrario dalle ricerche effettuate non risulta né una conoscenza fra Pacciani e Vanni all'epoca del delitto di Signa, né una particolare frequentazione di quei luoghi da parte del Pacciani.
● C'è un nutrito gruppo di mostrologi che ritiene che la Locci non fosse una semplice donna di facili costumi che frequentava per piacere personale svariati uomini, ma fosse una prostituta, seppur di basso livello, che per necessità frequentava uomini in cambio di denaro. A confermare questa teoria c'è da un lato l'eccessivo numero di presunti amanti della Locci, dall'altro c'è un dialogo avvenuto fra Antonio Lo Bianco e sua moglie Rosalia Barranca il giorno prima del duplice omicidio e riportato proprio dalla donna in sede di Processo a Stefano Mele. Secondo le dichiarazioni della Barranca, suo marito le avrebbe chiesto se non le avesse fatto piacere cambiare tenore di vita e avere molti più soldi a disposizione. Al che la donna gli avrebbe risposto contrariata se per caso si fosse messo in testa di fare il "magnaccia" e dunque di togliersi dalla mente idee così pericolose. Il colloquio fra i due si era chiuso con un nulla di fatto e il giorno dopo si era compiuto il duplice omicidio.
● Una questione estremamente dibattuta riguarda come arrivò Natalino Mele a casa dei De Felice, se da solo o accompagnato da qualcuno. La distanza fra la casa e il luogo del delitto è di poco superiore ai 2 km. In più era notte, il percorso accidentato e il bambino era scalzo. Per questo gli inquirenti inizialmente non reputarono possibile che il bambino avesse potuto compiere quel tragitto da solo.
Sullo stato dei calzini di Natalino c'è stato per lungo tempo molta incertezza. Da più parte si è sentito dire che i calzini fossero tutto sommati puliti. Lo dichiarò esplicitamente anche l'avvocato Rosario Bevacqua durante un'udienza del Processo Pacciani e c'è una celebre foto a testimoniarlo; una foto che però non è ben chiaro quando sia stata scattata. Questo ha portato molti mostrologi a credere che il piccolo Natalino fosse stato portato in braccio da qualcuno.
D'altro canto, l'avvocato Nino Filastò ha sempre sostenuto, basandosi sui verbali dell'epoca, che i calzini del bambino fossero sporchi e strappati e che dunque Natalino arrivò a piedi e da solo a casa del De Felice. I verbali cui Filastò fa riferimento sono quelli relativi alle dichiarazioni del carabiniere Mario Giacomini (il primo tutore dell'ordine ad arrivare a casa dei De Felice) e dei coniugi Marcello Manetti e Maria Sorrentino che abitavano sopra la casa dei De Felice. In tali verbali si parla chiaramente di calzini impolverati e strappati e se da un lato tale documentazione mette la parola fine a qualsiasi disquisizione sullo stato dei calzini, dall'altro non implica necessariamente che il piccolo Natale avesse compiuto quel percorso solo e a piedi. Anche perché risulta con certezza che il bambino non ebbe alcun bisogno quella sera di cure mediche specifiche per graffi, tagli o problemi ai piedi.
Al Processo Pacciani di tanti anni dopo (1994) un trentatreenne Natalino dichiarò di non ricordare assolutamente nulla di quella fantomatica notte, di essersi svegliato all'ultimo sparo e di non aver visto nessuno se non la mamma e il Lo Bianco morti. Alla domanda dell'avvocato di parte civile Luca Santoni Franchetti se avesse visto il padre sul luogo del delitto quella notte, Natalino rispose di no, ma ci fu un lungo e significativo momento di silenzio prima della risposta.
In realtà Natalino, così come suo padre, ha cambiato talmente tante versioni da risultare ancora oggi completamente inattendibile.
● La casa dei De Felice era praticamente confinante a quella di tale Salvatore Vargiu. Questo particolare ha fatto nascere diverse ipotesi probabilmente errate in seno ai cosiddetti Sardisti, che spesso hanno confuso il nome di tale Salvatore Vargiu con quello di Silvano Vargiu, servo pastore e in seguito si scoprirà amante di Salvatore Vinci.
Confondendo i due personaggi o confidando in una loro prossima parentela (che ammesso ci fosse, non era poi così prossima) alcuni di questi mostrologi hanno a lungo ritenuto che la casa del De Felice non fosse stata una destinazione casuale dove portare Natalino ma accuratamente scelta da chi aveva organizzato ed eseguito il delitto per poi poter controllare da vicino il bambino (tramite lo stesso Salvatore Vargiu).
A oggi, appurata la mancanza di un legame (più o meno stretto) fra i due Vargiu, questa ipotesi è vieppiù abbandonata.
● Da notare, come già detto, che Stefano Mele non fu in grado di portare da solo i carabinieri sul luogo dell'omicidio. Al primo tentativo sbagliò strada. Al secondo imboccò la strada corretta. Arrivati in loco, gli fu data in mano una pistola ma stando alle parole del colonello Dell'Amico: "Lì per lì mi diede l'impressione che non sapesse neanche da che parte si impugnasse."
Più in generale la ricostruzione del Mele, pistola in pugno, presenta alcune lacune, ma anche degli aspetti che potrebbero mostrarne l'autenticità. Vediamo dunque quali sono i particolari che indicherebbero la presenza del Mele sul luogo del delitto, considerando però che saranno analizzati maggiormente nel dettaglio in un successivo capitolo:
▪ il particolare della freccia accesa; il Mele dichiarò di averla azionata per sbaglio mentre armeggiava con i cadaveri;
▪ il fatto che l'omicida avesse armeggiato coi cadaveri, quantomeno con quello della Locci a cui potrebbero essere stati rimessi a posto mutandine e gonna, come a volerne coprire le nudità, cosa che farebbe pensare appunto al marito;
▪ l'esatto numero dei colpi di pistola esplosi (8) dichiarati correttamente dal Mele (che in realtà disse semplicemente di aver svuotato l'intero caricatore) quando invece i giornali parlavano di 6 colpi;
▪ il particolare della scarpa del Lo Bianco, trovata sul tappetino davanti al sedile di guida, e correttamente riportato dal Mele;
▪ inoltre, da ricordare come il Mele fosse stato trovato dai carabinieri, poche ore dopo l'omicidio, alle 7 del mattino con le mani sporche di grasso, pur essendo rimasto il pomeriggio e la notte precedenti a casa perché malato. Il grasso potrebbe aver avuto lo scopo di coprire le tracce di polvere da sparo, andando a inficiare la prova del guanto di paraffina;
▪ sempre in quel momento il Mele - a detta del brigadiere Matassino - sembrava oltretutto già conoscere le sorti della moglie e del figlio. Resta inteso che questa è la mera impressione di un carabiniere;
▪ infine, per completare il quadro che potrebbe indurre a pensare che il Mele fosse stato sulla scena del crimine, è doveroso far notare come l'aver sbagliato strada nell'arrivare sul luogo del delitto potrebbe essere frutto del fatto che lui, non essendo automunito, fu semplicemente portato da qualcuno (il famoso complice) e dunque non sapesse bene come raggiungerlo.
● Secondo la testimonianza della signora Rosa Lo Bianco, sorella della vittima maschile, nei giorni immediatamente precedenti al delitto, al bar La Posta a Lastra A Signa, Francesco Vinci (notoriamente geloso della Locci) aveva sfidato Antonio Lo Bianco a uscire con Barbara. A quanto risulta da tale testimonianza, riportata agli atti nel 1982, fra i due uomini prese corpo una vera e propria scommessa.
● A tal proposito, durante il processo ai danni di Stefano Mele, sia la madre che la moglie del Lo Bianco, la giovane signora Rosalia Barranca, affermarono che durante i funerali del loro caro congiunto, la moglie di Francesco Vinci si era avvicinata a loro chiedendo perdono a nome del marito (Francesco) e del cognato (Salvatore).
Tale episodio venne però smentito dalla deposizione della stessa moglie di Francesco Vinci, la signora Vitalia Meslis, la quale anzi dichiarò che il giorno del funerale del Lo Bianco si era sì avvicinata alla signora Barranca, ma solo per chiederle i motivi per cui il proprio marito era stato tratto in arresto.
● Episodio simile avvenne anche al termine del processo e della condanna di Stefano Mele, quando Giovanni Mele, fratello di Stefano, si avvicinò alla moglie del Lo Bianco e, quasi scusandosi, disse la sibillina frase: "Prima o poi a qualcuno che era con lei (la Locci, NdA) sarebbe dovuto capitare; mi spiace sia successo a suo marito". Una frase interpretata da alcuni come un'ammissione di colpevolezza da parte della famiglia Mele, la quale aveva voluto eliminare una donna che portava discredito sulla famiglia.
● Il detective Davide Cannella, a capo dell'agenzia investigativa Falco, ritiene che alla base del delitto Locci/Lo Bianco (commesso a suo dire dai fratelli Vinci) ci fossero soprattutto motivazioni economici, in quanto la Locci sperperava (o aveva già sperperato) con i suoi amanti i soldi dell'assicurazione avuti dopo un incidente stradale che ebbero Stefano Mele e Francesco Vinci.


Mostrologia a Signa
È ovvio come sulla genesi di questo duplice omicidio le teorie siano le più disparate. Vediamo brevemente quali ipotesi si possono formulare, indipendentemente - almeno per ora - dalle implicazioni con i successivi delitti attribuiti al MdF:
► Il delitto del 1968 è opera esclusivamente di Stefano Mele;
► Il delitto del 1968 è opera di Stefano Mele con la complicità di uno dei fratelli Vinci o di entrambi i fratelli Vinci;
► Il delitto del 1968 è opera di Stefano Mele con la complicità dei suoi parenti, stanchi di sopportare il comportamento disonorevole della Locci (cosiddetto delitto di clan);
► Il delitto del 1968 è opera di un sicario assoldato da qualcuno (ad esempio dalla famiglia Mele o dai Vinci) per uccidere la Locci;
► Il delitto del 1968 è opera di uno spasimante ignoto della Locci (magari colui che la pedinava e minacciava in motorino);
► Il delitto del 1968 è opera di un ignoto che voleva uccidere il Lo Bianco e la Locci è rimasta casualmente coinvolta;
► Il delitto del 1968 è opera di uno psicopatico, che ha ucciso una coppia qualsiasi in auto e che in seguito sarebbe divenuto famoso come il MdF.


16 commenti:

  1. chi ha trovato la pistola gettata via dal mele??? l'assassino sicuramente e' tra coloro che cercarono l'arma , la trovo se la porto' a casa come cimelio e anni dopo per un qualche motivo inizio a commettere omicidi con questa arma, ma secondo me questo delitto del 68 non c'entra nulla coi successivi omicidi.

    RispondiElimina
  2. gettata dal vinci ho sbagliato nome

    RispondiElimina
  3. si ma ammettendo che abbia recuperato l'arma,come faceva ad avere gli stessi proiettili?

    RispondiElimina
  4. e chi ha controllato che fossero gli stessi proiettili? ma per carita' ,

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Veramente l'hanno controllato un sacco di periti ed esperti balistici e dicono tutti la stessa cosa, arma e proiettili sono gli stessi.

      Elimina
    2. il primo duplice non e' opera del mostro che iniziera' ad uccidere nel 74

      Elimina
    3. Ma magari la mano è pure diversa e davvero il Mostro ha iniziato a colpire nel 1974, l’arma peró è SICURAMENTE la stessa.

      Elimina
  5. Buongiorno.
    “La vettura venne ritrovata con lo sportello posteriore destro socchiuso, il finestrino anteriore sinistro leggermente abbassato, quello posteriore sinistro abbassato per metà”.
    “La scarpa dell'uomo era sul tappetino anteriore, poggiato allo sportello sinistro dell'automobile, tant'è che quando i carabinieri lo aprirono, la calzatura cadde all'esterno”.
    Queste affermazioni provengono dai verbali dei carabinieri?
    E, se sì, come mai il colonnello dei carabinieri Dell'Amico afferma al processo che l'assassino aprì lo sportello anteriore sinistro?
    La prima infatti non fa alcun riferimento allo sportello anteriore sinistro aperto; la seconda lo presuppone chiuso (i carabinieri lo aprirono).

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Buongiorno, ti ringrazio per il commento.
      Le frasi da te riportate sono prese dal verbale del primo sopralluogo dei carabinieri ad opera del maresciallo Ferrero e indicano lo stato in cui venne ritrovata l'automobile.
      Non ho ben capito la tua rimostranza, però. Quelle di Dell'Amico a processo sono ipotesi di una possibile ricostruzione della dinamica del delitto, che non è detto sia reale. E in ogni caso, anche se il killer ha aperto lo sportello anteriore sinistro per l'attacco, non implica che poi non l'abbia richiuso o che qualcuno subito dopo non l'abbia richiuso.
      Ciao e grazie.

      Elimina
  6. Buongiorno, si sa quale fu la motivazione addotta dal Mele per le mani sporche di grasso?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. il duplice omicidio del 68 non c'entra assolutamente nulla coi delitti del mostro di firenze. Mia opinione personale , pacciani e compagni di merenderos innocentissimi e handicappati.

      Elimina
  7. Non ci hanno capito una mazza ,ci hanno scritto libri e speculato hanno arrestato innocenti e rovinato decine di persone innocenti . il vero assassino e' una sola persona un pazzo che uccide per soli due motivi .o fare impazzire gli investigatori per qualche torto subito, oppure una persona che ha molto moltissimo sofferto per amore. Chiaro, ,, mia teoria personale ma ne sono convintissimo. venuto in possesso della pistola per puro caso.

    RispondiElimina
  8. Visti i sempre più comici andazzi di voli di fantasia dei 'mostrologhi', aspettiamo con ansia la nuova ed altrettanto "valida" ipotesi de:

    a)- tutti duplici delitti furono in realtà duplici suicidi, compiuti sempre con armi e proiettili differenti
    b)- armi che, dopo ogni doppio suicidio, rimanevano in loco ovviamente
    c)- ma caso vuole che subito dopo ogni duplice suicidio passasse proprio da quelle parti sempre qualcuno, ogni volta un persona differente, che ogni volta raccoglieva l'arma e l'andava a buttare a mare
    d)- i servizi segreti lo avevano scoperto subito, ma hanno trigato e manipolato per montarci su un caso per sviare le attenzioni dai rapporti che gli alieni di Beta-Orione avevano stretto col braccio armato stragista della proloco di Roccabaffo di Pizzopapero di Sotto, in cui collaborava il cugino del nipote del figlio di un noto politico legato a filo doppio con la massoneria nippo-perugina e coi carabinieri di piantone fuori dalla sede della CIA a Roma.
    Insomma: un vero scandalo da insabbiare ad ogni costo.

    h.

    RispondiElimina
  9. A furia di "opinioni personali" arriverà il momento in cui con identico tipo di "certezza", si sosterrà che l'arma era il Carcano 'abbandonato' e 'ritrovato' al sesto piano del Texas School Book Depository a Dallas il 22 nov. 1963.

    h.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Pacciani lotti vanni i mostri di firenze? h aah ha hahahaha hahahahahahahah aha ah.

      Elimina
    2. A FURIA DI OPINIONI PERSONALI---..... infatti mia opinione personale da assumere in una ditta di pulizie giudici investigatori scrittori e tutti quelli che non sono ancora riusciti a indagare nemmeno il vero assassino. ma andiamo !!! vanni mostro di firenze a hh a poveruomo!

      Elimina