Francesco Vinci


Nato nel maggio del 1943 a Villacidro (Cagliari), Francesco Vinci era il terzo dei sette fratelli Vinci (Giovanni, Salvatore, Francesco, Lucia, Maria, Carmela e Giuseppina).
Di Salvatore parleremo in un successivo capitolo, di Giovanni sappiamo che era emigrato in Toscana nell'ottobre del 1952 dopo essere stato coinvolto in una turpe vicenda incestuosa nei confronti di sua sorella Lucia. Giunto a Lasta a Signa, Giovanni conobbe la giovane Barbara Locci di cui divenne amante. Nel corso degli anni successivi subì una serie di procedimenti penali per furto, violenza privata, ingiurie e atti osceni.
Nei primi anni '60, anche il giovanissimo Francesco emigrò in Toscana con la futura moglie Vitalia Melis. Si stabilì a Montelupo, in provincia di Firenze. Sposò Vitalia e nel 1964 nacque la loro prima figlia, Vania.
Nel 1966, grazie al fratello Salvatore, conobbe Barbara Locci, di cui divenne amante. Sul finire dell'estate del 1967 investì con la sua lambretta Stefano Mele che si fratturò una gamba e venne ricoverato in ospedale per alcune settimane. Non disponendo di una polizza assicurativa, l'incidente fu imputato al fratello Salvatore la cui assicurazione emise un indennizzo a Stefano Mele di 480.000 lire.
Durante la permanenza in ospedale di Stefano Mele, Francesco Vinci andò a vivere con Barbara Locci, finché la moglie Vitalia non lo denunciò per concubinaggio, maltrattamenti e mancanza di assistenza alla famiglia. Successivamente Vitalia ritirò la denuncia e i due coniugi tornarono a vivere insieme.
Dopo l'omicidio Locci/Lo Bianco (vedasi capitolo Castelletti di Signa), il Vinci fu accusato da Stefano Mele di aver commesso l'omicidio per motivi di gelosia. Venne arrestato, ma non risultò nulla di concreto contro di lui e fu dunque rilasciato per poi venire completamente scagionato.
Durante il processo al Mele, tuttavia, emerse chiaramente da varie testimonianze come il Vinci fosse morbosamente geloso della Locci e mal sopportava i suoi numerosi amanti. Anche suo fratello Salvatore testimoniò contro di lui, non mancando di far notare che Francesco fosse possessore di una pistola.
Da uomo libero, a fine processo, Francesco dichiarò a proposito di Salvatore: "Lui può dire quello che vuole; fra l'altro non corrono buoni rapporti fra noi per motivi di famiglia. Io comunque non ero ad ammazzarli e non ho mai visto pistole."
Pur essendo stato assolto da ogni accusa, Francesco Vinci è stato ritenuto per anni il vero colpevole del duplice omicidio almeno dal ristretto nucleo familiare che ruotava attorno alla vicenda "Locci/Lo Bianco". In particolar modo, la madre del Lo Bianco lo accusò pubblicamente durante il processo di aver ucciso il proprio figlio; i fratelli Giovanni e Salvatore cercarono, seppur in maniera diversa, di imputargli la responsabilità del delitto e il possesso dell'arma; il padre di Stefano Mele, Palmerio, lo accuserà anche nel 1982 di essere stato l'autore del duplice omicidio; persino un suo amico, Giovanni Calamosca, si dirà convinto della colpevolezza del Vinci. Tutte accuse, comunque, mai basate su alcuna prova concreta. Al contrario, appare certo che:
▪ Francesco venne sottoposto alla prova del guanto di paraffina, che – come visto - risultò negativa;
▪ la moglie Vitalia testimoniò a suo favore confermando che la sera dell'omicidio di Signa era con lei;
▪ la pistola non venne mai rinvenuta fra i suoi effetti personali;
▪ la moto in suo possesso era in quei giorni in riparazione.


Frequentazioni in Mugello
Uscito indenne dal processo, il Vinci continuò la sua vita fatta di piccoli reati e violenze domestiche.
Nel 1972 fu condannato per furto e detenuto fino al marzo del 1973, quando gli fu concessa la libertà provvisoria con l'obbligo di residenza. Uscito dal carcere, si trasferì con la famiglia sulle rive dell'Arno, in via Gramsci, sempre a Montelupo Fiorentino.
Nei primi mesi del 1974 conobbe e divenne l'amante di Alessandrina Rescinito una donna originaria di Barberino del Mugello, in quel momento senza fissa dimora. Il Vinci obbligò la sua famiglia ad accogliere in casa la nuova fiamma, ma ben presto contravvenne all'obbligo di residenza e fu incarcerato dal 12 aprile al 9 settembre del 1974 (cinque giorni prima del duplice omicidio di Rabatta). Uscito dal carcere, Francesco non trovò la Rescinito in casa propria, andò dunque a cercarla in casa della di lei madre a Barberino (e non a Borgo San Lorenzo come viene riportato erroneamente in quasi tutti i trattati mostrologici). Non la trovò neanche lì e si rese protagonista di una scenata furiosa nei confronti della madre, minacciandola di farle passare "guai grossi". Un paio di giorni dopo, nella campagna di Borgo San Lorenzo, ci fu l'omicidio Gentilcore/Pettini, il primo convenzionalmente attribuito al MdF.
Dopo il 1974 Francesco Vinci entrò e uscì dal carcere diverse volte per reati vari. Fu condannato dal tribunale di Lucca per furto e per porto e detenzione di arma, una rivoltella a tamburo calibro 22. Contravvenne nuovamente all'obbligo di residenza e tornò in carcere dal 10 al 27 marzo 1975.
Successivamente fu coinvolto in un altro caso di omicidio. Il 2 Febbraio 1976 un pastore sardo affiliato all'Anonima Sequestri di nome Natalino Sechi e sua figlia Lorella, residenti in un casolare nei pressi di Castel San Pietro, vicino Bologna, furono uccisi a colpi di fucile davanti all'uscio di casa. Il Vinci e il suo amico Giovanni Calamosca furono accusati dell'omicidio e reclusi dal dicembre del 1976 al marzo del 1977, per poi essere rilasciati in quanto ritenuti estranei alla vicenda.
Da notare che il Calamosca, proprietario terriero ed allevatore di bestiame imolese, era in stretti rapporti di affari e amicizia con alcuni noti esponenti dell'Anonima Sequestri sarda, quali Mario Sale e Giovanni Farina.


Eventuali frequentazioni a San Casciano
I rapporti fra Vinci e Calamosca rimasero sempre piuttosto intensi, almeno fino all'agosto del 1982.
Stando a quanto avrebbe raccontato agli inquirenti nel marzo del 1997 lo stesso Calamosca, durante la loro lunga frequentazione il Vinci gli avrebbe fatto una serie di confidenze sul delitto del 1968: gli avrebbe, infatti, rivelato di essere stato lui l'autore di quell'omicidio e il possessore della pistola che in seguito era stata ceduta a colui che sarebbe diventato il Mostro di Firenze.
Inoltre, Calamosca riferì che nei primi anni '80 Francesco Vinci conobbe e divenne l'amante di una giovanissima prostituta di San Casciano Val di Pesa, di nome Milva Malatesta.
Milva era la figlia di Renato Malatesta e Maria Antonietta Sperduto. La Sperduto - come avremo modo di vedere - era l'amante di un contadino di nome Pietro Pacciani.
Queste rivelazioni avrebbero potuto finalmente spiegare come la pistola usata nel 1968 fosse passata dalle mani di Francesco Vinci a quelle di Pietro Pacciani che, almeno secondo le sentenze, sarebbe divenuto il Mostro di Firenze. Tuttavia, come vedremo, tali dichiarazioni non sono mai state tenute in debita considerazione, né all'epoca dagli inquirenti né attualmente dalla maggioranza dei mostrologi, a causa della presunta inattendibilità dello stesso Calamosca.


L'arresto
Tornando ai primi anni '80, il 14 novembre 1981 Francesco Vinci fu arrestato per furto e recluso presso il carcere delle Murate a Firenze. Nello stesso periodo, in quello stesso carcere, era detenuto anche Salvatore Indovino, futuro mago di San Casciano e personaggio che assumerà notevole interesse nella vicenda del Mostro a partire dalla metà degli anni '90. Indovino sarebbe stato scarcerato il 4 dicembre del 1981, dunque condivise il carcere con Francesco Vinci per circa tre settimane. Poco dopo, precisamente il 21 dicembre, venne scarcerato anche il Vinci.
Tuttavia, Francesco rimase a piede libero solo per pochi mesi.
Il 19 giugno 1982 il Mostro colpì a Baccaiano. Due giorni dopo, il 21 giugno, l'automobile Renault 4 del Vinci venne trovata occultata nella campagna attorno a Civitella Marittima in provincia di Grosseto.
Un mese dopo avvenne ufficialmente il collegamento della seria omicidiaria attribuita al Mostro con il delitto di Signa e Francesco fu il primo dei sardi a finire sotto il mirino degli inquirenti. Questo sia perché, nonostante la condanna definitiva del Mele, era stato a lungo il maggiore indiziato come autore del duplice omicidio Locci/Lo Bianco, sia per via di una serie di indizi che emersero a suo carico e che saranno elencati meglio nel seguito.
Il 26 luglio 1982, quattro giorni dopo l'apertura ufficiale della Pista Sarda, venne emesso un decreto di perquisizione nell'abitazione di Francesco Vinci. La scusa per tale provvedimento era data dai suoi presunti rapporti con l'anonima sequestri sarda. In quel momento ancora nessuno, escludendo una ristretta cerchia di inquirenti, sapeva del collegamento con il 1968.
La perquisizione venne eseguita appena due giorni dopo, in data 28 luglio, e diede esito negativo. Ma nel frattempo il Vinci aveva già fatto perdere le sue tracce. La moglie Vitalia riferì infatti che il giorno precedente il marito si era allontanato da casa a bordo della sua Renault 4 e non aveva più fatto ritorno. Risulta essere piuttosto consistente il dubbio che il Vinci potesse aver ricevuto una qualche soffiata ed essersi quindi dato alla macchia dopo la stessa. Dubbio che diverrà ancor più forte in seguito al suo arresto, quando sarà chiaro che il manovale sardo stava preparando la sua fuga all'estero. E difficilmente tale fuga sarebbe stata dovuta alle accuse per i maltrattamenti in famiglia o per i presunti contatti con l'anonima sequestri.
Il giorno successivo, 29 luglio, il Giudice Istruttore Vincenzo Tricomi si recò a interrogare Stefano Mele che, nel frattempo aveva scontato la pena e risiedeva in un istituto per ex carcerati a Ronco dell'Adige, in provincia di Verona.
L'ormai sessantatreenne muratore sardo tornò ad accusare del duplice omicidio del 1968 proprio Francesco Vinci, affermando che sia lui che suo figlio Natalino erano stati all'epoca minacciati di morte dal Vinci nel caso avessero parlato.
Frattanto, sapendo di essere braccato e stavolta per motivi veramente seri, Francesco contattò l'amico Calamosca per avere un passaporto falso e fuggire all'estero, forse in Francia o addirittura in Australia, confidandogli che "doveva fuggire all'estero perché non voleva mettere una famiglia nella merda", qualsiasi cosa volesse intendere.
Non fece in tempo perché la sera del 15 agosto 1982 fu arrestato proprio a casa del Calamosca, a Ca' Burraccia, in una zona impervia dell'Appennino Tosco-Romagnolo nei pressi di Fiorenzuola. In quel momento i rapporti fra i due amici si incrinarono perché il Vinci sospettò che il Calamosca avesse fatto la spia e causato il suo arresto.
Ufficialmente Francesco Vinci veniva arrestato per maltrattamenti in famiglia, tuttavia - sempre secondo il Calamosca - il manovale sardo sapeva benissimo di essere sotto indagine per i delitti del MdF. Chiedersi come faceva a saperlo, sarebbe un'ottima domanda. Ma del resto, sappiamo già che un paio di settimane prima il Vinci aveva anticipato le mosse degli inquirenti, facendo perdere le proprie tracce proprio il giorno prima della perquisizione nella sua abitazione.
Tradotto in carcere, il 17 agosto il Vinci fu sottoposto a un lungo interrogatorio.
Per prima cosa gli venne contestato il ritrovamento, subito dopo il delitto di Baccaiano, della sua automobile Renault 4 di colore bianco, nascosta nella campagna attorno a Civitella Marittima in provincia di Grosseto. Il sospetto degli inquirenti era che avesse occultato la vettura perché notata sul luogo del delitto.
Il Vinci fornì invece motivazioni poco credibili, affermando dapprima che era andato dalle parti di Civitella Marittima per trovare un posto dove trascorrere le vacanze con la famiglia, in seguito parlò di un'avventura extraconiugale ("questioni di corna") che si sarebbe consumata in quei luoghi. Entrambe le versioni terminavano, comunque, con la rottura dell'automobile e lui che l'aveva nascosta per evitare che qualcuno potesse rubarla.
Nota a margine: stando a quanto affermerà il giudice istruttore Mario Rotella, il Vinci era semplicemente coinvolto in furti commessi nella zona di Civitella.
Sul perché si fosse dato alla macchia un mese dopo il duplice delitto di Baccaiano, il manovale sardo spiegò che una volta appreso che le forze dell'ordine lo stavano cercando, pur non avendo nulla da nascondere, visti i suoi trascorsi aveva deciso di rendersi irreperibile.
Sottoposto nel corso dei mesi e degli anni a svariati interrogatori, nonostante le terribili accuse che pendevano sul suo capo, il Vinci mostrò sempre di possedere eccezionale sangue freddo e ottime capacità intellettive, tanto da mettere lui stesso spesso in difficoltà i magistrati che lo interrogavano.
Stando alle parole del suo avvocato Alessandro Traversi, Francesco Vinci, che non aveva conseguito neanche la licenza elementare, era una delle persone più intelligenti che avesse mai conosciuto. Storico l'aneddoto raccontato dallo stesso avvocato secondo cui al cospetto di un uomo dall'eccezionale durezza come Pier Luigi Vigna che gli rinfacciava tutti gli indizi a suo carico, il Vinci prese un pacchetto di sigarette, lo accartocciò fra le mani e disse a Vigna che tali indizi erano come quel pacchetto, un momento prima c'erano e un momento dopo non valevano più nulla.
Durante la detenzione, Francesco Vinci ebbe comunque atteggiamenti strani e contraddittori. I giorni 1 e 2 ottobre 1982 venne ricoverato presso il Centro Clinico della Casa Circondariale di Firenze per uno sciopero della fame che in poche settimane gli aveva fatto perdere una ventina di chili. Tornò in clinica dal 6 al 10 ottobre per una presunta frattura a una mano. Nel novembre del 1982 gli venne ufficialmente notificato che era indagato per tutti i delitti del Mostro (1974, 1981, 1981, 1982).
In quel periodo il Vinci fu sottoposto a diverse perizie psichiatriche. Durante uno di questi colloqui si dice che confidò al professor Pierluigi Cabras, stimato psicologo fiorentino, di conoscere l'identità del mostro di Firenze.
Il Vinci si rifiutò peraltro d'essere sottoposto ad elettroencefalogramma, dichiarando: "Io sono disposto a farmi esaminare dal di fuori, ma non voglio essere frugato dentro!"
Secondo il cappellano del carcere di Sollicciano, don Danilo Cubattoli, chiamato a testimoniare durante il Processo ai CdM, il Vinci si disperava fortemente per le accuse che pendevano sul suo capo, professando con forza la sua innocenza, talvolta anche con atteggiamenti autolesionistici.
Secondo le dubbie dichiarazioni dell'ergastolano Giuseppe Sgangarella, anch'egli ascoltato durante il Processo ai CdM, il Vinci temeva per la propria vita, convinto di poter essere fatto fuori dalle persone implicate nella vicenda del Mostro, cui lui stesso aveva in precedenza ceduto la pistola. Vedremo in un paragrafo successivo la scarsa attendibilità di queste ultime dichiarazioni.
Nel frattempo, mentre Francesco Vinci era in carcere si verificarono altri due duplici omicidi del cosiddetto MdF, il primo a Giogoli nel settembre del 1983, un omicidio particolare in cui non ci furono escissioni e portò qualcuno a pensare che potesse essere stato commesso ad arte per discolparlo; il secondo a Vicchio nel luglio del 1984, quest'ultimo delitto inequivocabilmente opera del MdF.


La scarcerazione, la fuga e la morte
Il 26 ottobre 1984 Francesco Vinci fu definitivamente scarcerato; tale data emerge in dibattimento al processo contro i Compagni di Merende allorché si discusse se gli eredi del Vinci potessero costituirsi parte civile: udienza dell'11 novembre 1997, minuti 24 e 25 della registrazione di Radio Radicale. In definitiva, Francesco Vinci rimase in carcere dal 15/8/1982 al 25/10/1984.
Subito dopo la scarcerazione, il Vinci incontrò a cena il giornalista Mario Spezi cui, stando a quanto riporta lo stesso Spezi, confidò in tono quasi affettuoso: "Il mostro è uno che si sa muovere di notte, in campagna, e che ha sofferto tanto da bambino". Fu proprio questa confidenza a far maturare col tempo nello Spezi (che fino a quel momento aveva seguito la pista del ginecologo) la cosiddetta "Teoria Carlo", un'ipotesi mostrologica che avremo modo di valutare più avanti.
Tornato libero, Francesco Vinci decise di lasciare l'Italia e fuggire in Francia dove visse per diversi anni.
Nel marzo del 1985, sempre all'interno della cosiddetta Pista Sarda, venne arrestato Giovanni Calamosca per presunta detenzione abusiva di una pistola calibro 22, che gli inquirenti sospettavano potesse essere quella del Mostro. Uno dei grandi accusatori del Calamosca fu un investigatore privato di origini salentine, tale Adriano Gei, convinto sostenitore della sua partecipazione ai delitti del Mostro. Da un articolo del quotidiano "La Repubblica" del 7 aprile 1985 apprendiamo che il Gei era titolare di un'agenzia investigativa a Lecce, la "Pinkerton", che aveva qualche precedente per emissione di assegni a vuoto e al quale era stata revocata la licenza dalla prefettura di Lecce (il Tar ne aveva poi sospeso la revoca). Entrato in contatto con Renzo Rontini, il padre della vittima femminile del delitto del 1984, che in passato aveva avuto un occasionale rapporto lavorativo proprio con il Calamosca, Gei aveva allertato stampa e televisioni locali, sostenendo di aver individuato il killer delle coppiette proprio nella persona del pastore imolese. Le successive indagini, tuttavia, non portarono a nulla. La famosa arma, che evidentemente il Calamosca avrebbe custodito o perché era lui il Mostro o per fare un favore al Mostro, non venne mai trovata e il Calamosca venne rilasciato dopo due mesi di reclusione. Al Gei venne contestata la "diffusione di notizie esagerate o tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico".

Dopo quattro anni di serrate indagini, il 13 dicembre 1989, il giudice istruttore Mario Rotella chiuse l'indagine relativa alla cosiddetta Pista Sarda con una sentenza-ordinanza di 162 pagine in cui dichiarava di non doversi procedere "per non aver commesso il fatto" nei confronti di tutti i sardi che nel corso degli anni erano stati indagati, tra cui anche appunto Francesco Vinci.
Due giorni prima di Pasqua del 1990, il Vinci tornó a trovare Calamosca per proporgli alcuni affari; in quell'occasione il Calamosca notó che l'amico appariva provato, depresso, dedito all'alcool. Ad angustiarlo, sempre secondo il pastore imolese, era ancora la faccenda della pistola del Mostro, un segreto troppo ingombrante e pericoloso da portarsi dentro.
Il 7 agosto 1993, il Vinci fu torturato, mutilato, ucciso e quindi bruciato insieme all'amico Angelo Vargiu. I loro corpi carbonizzati furono trovati nella frazione Garetto di Chianni vicino a Pontedera nel bagagliaio di una Volvo 240 di proprietà di Francesco Vinci. Il sostituto procuratore incaricato delle indagini, dottor Angelo Perrone, dichiarò in merito: "Stiamo lavorando sul contesto umano di questa gente, un intreccio molto complicato dove convivono furti di bestiame, sequestri di persona, ultimamente anche droga. Molti segreti. Seguiamo ogni pista."
I funerali si svolsero il 2 maggio 1994, quando fu data per certa l'identità dei due corpi.
Per il delitto fu accusato Giampaolo Pisu, un pastore di Orciatico, che fu poi prosciolto.


Particolarità su Francesco Vinci
● Ad inizio anni '90, la signora Vitalia Melis fu ospite della trasmissione di Rai2 condotta da Giancarlo Magalli, I fatti vostri, in cui (accompagnata dall'investigatore privato Davide Cannella) dichiarò di essere alla ricerca della figlia che anni prima aveva abbandonato la famiglia e pare non avesse la minima intenzione di tornare sui propri passi. In quell'occasione la donna confermò che il marito era rimasto in carcere 2 anni e 2 mesi con l'infamante accusa di essere il MdF.
● Considerando che in occasione dei delitti del 1983 e del 1984 Francesco Vinci era in carcere e che in occasione del duplice omicidio del 1985 era in Francia, risulta impossibile pensare a lui come al Mostro di Firenze. Eppure subito dopo il delitto di Baccaiano (giugno 1982), una serie di (presunte) coincidenze sembravano non lasciare dubbi circa il suo coinvolgimento nei delitti. Nello specifico:
1. era nel Mugello nel settembre 1974, qualche giorno prima del delitto di Rabatta, ove si era recato alla ricerca della sua amante; non trovandola aveva discusso animatamente con la di lei madre e aveva minacciato di far loro passare grossi guai;
2. lavorava a Montespertoli nel giugno del 1982, ove stava effettuando riparazioni nella casa del genero, il quale a sua volta risultava imparentato con Antonella Migliorini, uccisa dal mostro proprio in quei giorni. Su questo punto si esprimerà il Giudice Istruttore Rotella nella sua sentenza del 1989: "Il p.m. fa ulteriori verifiche a carico di Vinci, anche relativamente all'alibi dell'imputato e ai suoi movimenti dopo il delitto duplice di Montespertoli. Viene in particolare riescusso il suo futuro genero, Antonio Giovannetti, già sentito dopo Vitalia Vinci nel luglio precedente. Il Giovannetti conferma quanto ha riferito. La sera del 19 giugno '82 (quella del delitto) egli è rimasto a casa del Vinci, a Montelupo F.no, sino alle 23:30/24, aiutandolo a riparare un tetto e trattenendosi poi a cena, e che ciò è accaduto anche il giorno successivo, domenica 20 (dopo il quale Vinci sarebbe sparito, intanto avutasi notizia del duplice omicidio consumata nella zona e della temporanea sopravvivenza del povero Mainardi). In entrambe le occasioni egli ha lasciato il Vinci in casa sua. Giovannetti vive ad Ortimino di Montespertoli, in una casa dove nel maggio-giugno precedente il futuro suocero si è recato a pavimentare. La testimonianza relativa agli orari sembra esser favorevole al Vinci, ma la distanza tra Montelupo e Baccaiano di Montespertoli è relativamente breve. Desta sospetto, inoltre, la frequentazione del territorio del comune da parte del Vinci.".
3. sempre nel giugno del 1982, subito dopo il delitto di Baccaiano, Francesco si era dato alla latitanza e la sua automobile (Renault 4 bianca) era stata nascosta dal nipote Antonio Vinci (figlio del fratello Salvatore) a Civitella Marittima, nella campagna grossetana; abbiamo già visto come il giudice Rotella scriverà a tal proposito: "si scoprirà poi che è coinvolto in furti commessi nella zona dove ha nascosto l'autovettura".
4. aveva una buona conoscenza dei luoghi degli altri due delitti fino ad allora commessi dal mostro; per quanto riguarda il delitto di Mosciano, lui viveva infatti nella vicinissima Montelupo Fiorentino (al Turbone); per quanto riguarda Travalle, aveva in passato frequentato spesso la zona di Prato e il bar dei sardi in piazza Mercatale;
5. sempre a proposito di abitazioni, Vinci viveva nel medesimo paese di Enzo Spalletti, il guardone possibile spettatore del delitto di Scandicci, e del famigerato dottor B., il ginecolo attenzionato dagli inquirenti. Di entrambi abbiamo avuto modo di parlare a proposito del delitto di Mosciano. Interrogato su un'eventuale conoscenza del Vinci, il dottor B. confermò di essere stato medico della famiglia.
6. nonostante i numerosi arresti e i vari lassi di tempo trascorsi in galera fra il 1968 e il 1982, Francesco era sempre stato libero in occasione dei delitti commessi dal MdF.
7. infine, in una recente intervista rilasciata al blogger Francesco Cappelletti, l'ex luogotenente dei carabinieri Luciano Fattorini, che nel 1982 era stato di stanza a Montespertoli, ha dichiarato che subito dopo l'arresto del Vinci, si era presentato in caserma un vicino di casa dello stesso Vinci ai tempi del delitto di Signa. Costui aveva affermato di averlo visto all'epoca allenarsi a sparare con una pistola in un campo vicino Signa. I carabinieri si recarono nella zona indicata non trovando però né bossoli, né segni di tali esercitazioni, avvenute invero (ove fossero mai realmente accadute) circa quindici anni prima.


Francesco Vinci in Mostrologia
Molto si è elucubrato sull'eventuale frequentazione che Francesco Vinci avrebbe avuto con Milva Malatesta, la prostituta sancascianese, figlia dell'amante dei futuri Compagni di Merende, Pietro Pacciani e Mario Vanni.
Su questo rapporto in seguito puntò la Procura di Firenze durante il Processo ai CdM per spiegare il passaggio di mano della pistola dai sardi (autori del delitto del 1968) al Pacciani (autore di tutti gli altri delitti). Dando infatti per buono il legame Vinci-Malatesta e considerando che Pacciani era l'amante della mamma di Milva, sarebbe a quel punto dovuto risultare evidente come Vinci e Pacciani avessero frequentato la stessa casa, quella dei Malatesta in via Faltignano e probabilmente anche quella confinante di Salvatore Indovino, personaggio misterioso di cui avremo modo di parlare e su cui in seguito si riverseranno le attenzioni della Procura di Firenze.
A sostenere la tesi del legame fra Francesco e la Milva fu – come detto – Giovanni Calamosca, amico del Vinci, che al Processo ai CdM ribadì questa relazione. Durante la sua deposizione Calamosca affermò che:
1. Francesco Vinci gli aveva confessato di essere stato l'autore del delitto del 1968 insieme a Stefano Mele;
2. il Vinci era il proprietario della famosa Beretta del "Mostro". La pistola era stata in seguito ceduta dal Vinci a colui/coloro che a partire dal 1974 compì/compirono i delitti del cosiddetto Mostro;
3. proprio questo causò nel 1993 la tragica morte del Vinci, il quale forse ricattava il MdF o forse era divenuto un testimone scomodo che, ormai dedito all'alcool, avrebbe potuto parlare.

A parte la parola dello stesso Calamosca, non esistono tuttavia ulteriori testimonianze, né tantomeno prove, a sostegno della relazione fra il Vinci e la Malatesta. Nessuno fra i frequentatori delle due abitazioni confinanti in via Faltignano ha mai parlato della presenza del Vinci.
L'unico fattore che potrebbe far sorgere qualche sospetto a favore di una possibile frequentazione Vinci-Malatesta (e di conseguenza Vinci-Pacciani) è una strana e tragica coincidenza: sia Francesco che Milva furono uccisi nello stesso periodo (Agosto 1993, a una settimana di distanza l'uno dall'altra) e nello stesso brutale modo (bruciati vivi dentro un'automobile).
Ancora una volta è il Calamosca a fornire le motivazioni di tali omicidi. Per lui Francesco era "un ladro di polli" e non c'era dunque alcuna ragione per cui dovesse essere ammazzato in maniera così violenta, a meno di non ritenerlo custode di segreti inconfessabili come quelli che avevano a che fare con la vicenda del MdF.
Di conseguenza, la stessa povera Milva, perita nel tragico rogo della sua automobile in compagnia di suo figlio Mirko di appena tre anni, sarebbe stata uccisa perché era stata messa a conoscenza di tali segreti dal suo presunto amante.
Almeno aprioristicamente, dunque, non si può scartare l'ipotesi che queste due morti così vicine e così tragiche possano essere collegate fra loro e questo indurrebbe a pensare che effettivamente ci potesse essere una connessione fra le due vittime.
In realtà, le indagini seguiranno altre piste e per il duplice omicidio di Milva e di Mirko verrà indagato il marito della ragazza, tale Francesco Rubino. Come si vedrà in un successivo capitolo (vedasi Le morti collaterali), Rubino verrà in seguito giudicato estraneo ai fatti .

A supporto delle dichiarazioni del Calamosca, arrivarono comunque quelle di Giuseppe Sgangarella, anche lui ascoltato in udienza durante il Processo ai CdM.
Sgangarella però risultò indubbiamente ancora meno attendibile del Calamosca.
Salernitano di nascita, condannato all'ergastolo per lo stupro e l'omicidio di una bambina, lo Sgangarella venne arrestato nel 1979 e recluso nel carcere di Porto Azzurro (isola d'Elba). Il 17 maggio 1984 venne trasferito nel muovo carcere di Sollicciano a Firenze.
Stando alla sua deposizione, durante la detenzione a Sollicciano era entrato in buoni rapporti dapprima con Francesco Vinci (arrestato come abbiamo visto nell'agosto 1982) e qualche anno dopo col Pacciani, arrestato a sua volta nel 1987 per la violenza sulle figlie.
Forte di questa duplice amicizia, lo Sgangarella dichiarò agli inquirenti di essere venuto a conoscenza di informazioni che avrebbero aiutato la Procura nelle indagini sul Mostro, ma che avrebbe parlato solo in cambio di benefici.
Era questa un'usanza piuttosto consolidata fra i detenuti di lungo corso: sfruttare le informazioni raccolte in carcere per aiutare la magistratura in indagini particolarmente difficili in cambio di sconti di pena o permessi premio; ma era abitudine anche fingere di avere tali informazioni nel tentativo di rimediare qualche beneficio.
Di ciò che lo Sangarella ebbe a dire sulla sua documentata conoscenza col Pacciani, avremo modo di parlare in seguito. In questo capitolo ci limitiamo alle dichiarazioni sulla sua per nulla certa conoscenza col Vinci.
L'ergastolano dichiarò di aver avuto modo di conoscere Francesco Vinci quando questi era detenuto per i delitti del Mostro fra il 1982 e il 1984 e di aver ricevuto da lui confidenze sia sull'omicidio del 1968, sia sui delitti del Mostro di Firenze: il primo sarebbe stato commesso dal Vinci stesso, i successivi da un gruppo di persone con base a San Casciano, comprendente fra gli altri, Pacciani, un tale postino (Vanni, NdA) e un tale mago (Salvatore Indovino, NdA).
Già in dibattimento, tuttavia, lo Sgangarella risultò davvero poco credibile. Pressato dalle domande del PM Canessa e dell'avvocato Filastò, venne appurato infatti che Vinci e Sgangarella non si erano mai incontrati in carcere, ma avevano condiviso solo qualche giorno nel centro clinico di Sollicciano. Un lasso di tempo molto ridotto per far maturare quell'amicizia di cui parlava lo Sgangarella e che sarebbe stata alla base delle rivelazioni che il Vinci gli avrebbe fatto.
Allo stesso PM apparve molto strano che un tipo cauto come il Vinci potesse fare simili confidenze a un perfetto sconosciuto, arrivando a confessare un omicidio e confidandogli di temere per la propria vita e di poter essere ucciso dal Pacciani. Nome oltretutto, questo del Pacciani, che allo Sgangarella all'epoca sarebbe dovuto risultare quello di un perfetto sconosciuto. Pietro sarebbe infatti stato arrestato solo nel 1987 (dunque almeno tre anni dopo queste confidenze) e sarebbe salito agli onori della cronaca per i delitti del Mostro solo agli inizi degli anni '90. Sembra dunque decisamente improbabile che lo Sgangarella potesse aver memorizzato il nome di quello che all'epoca era un perfetto sconosciuto e, a oltre dieci anni di distanza, riferirlo alla magistratura.
Alla fine, quelle dello Sgangarella sembravano a tutti gli effetti dichiarazioni studiate a tavolino, prendendo spunto dai vari articoli di giornali dell'epoca e dai continui reportage televisivi sull'argomento, per ingraziarsi la magistratura fiorentina e ottenere i relativi benefici.
Ma il colpo di grazia alle dichiarazioni dello Sgangarella, lo diede l'ispettore di polizia Massimo Fanni durante la sua deposizione al Processo contro i CdM dell'11 novembre 1997. Documenti alla mano, il Fanni dichiarò che lo Sgangarella era stato detenuto fino al maggio 1984 a Porto Azzurro e dal maggio del 1984 in poi nel centro clinico di Sollicciano. Francesco Vinci era stato invece scarcerato a fine ottobre del 1984. Durante quei sei mesi di codetenzione nello stesso istituto, c'era stato un solo giorno in cui il Vinci era stato portato al centro clinico (per una presunta frattura alla mano) e in cui potrebbe avere avuto rapporti con lo Sgangarella, vale a dire il 4 luglio 1984. Un unico giorno quindi, che contraddiceva definitivamente l'amicizia cui aveva fatto riferimento lo Sgangarella.

Non è un caso, infatti, se la stessa Procura di Firenze si è sempre dimostrata estremamente scettica sulle dichiarazioni di Calamosca e dello Sgangarella, andando perció a cercare altrove il punto di contatto fra Vinci e Pacciani per spiegare il passaggio della pistola dall'autore del delitto di Signa all'autore dei delitti successivi.
Tale contatto sembrò essere stato trovato in un pastore sardo, amico di Francesco Vinci, Giuseppe Barrui, arrestato per rapina e condannato per una serie di reati fra cui tentata violenza carnale, spaccio di banconote false, detenzione di armi, sequestro di persona. Secondo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia fatte a Vigna, il Barrui avrebbe ceduto a Pacciani la pistola con cui il Vinci aveva commesso il delitto del 1968 e in seguito lui stesso avrebbe nascosto un proiettile calibro 22 nell'orto di casa Pacciani per sviare le indagini (vedasi capitolo Il Processo Pacciani).
Anche questa pista tuttavia non sembrò portare a nulla. In un'intervista, lo stesso Procuratore Pier Luigi Vigna, affermò infatti esplicitamente che la Procura aveva cercato a lungo una connessione fra i sardi e Pacciani senza mai riuscire a trovarla e a dimostrarla. Secondo Vigna, la cosa più probabile è che, essendo sia Vinci che Pacciani frequentatori di boschi, i due si fossero conosciuti proprio in una di quelle occasioni. Vigna appunto dimostrò con quelle parole di non credere per nulla (e aggiungeremmo ovviamente) né a Calamosca né allo Sgangarella.
Anche il giudice del Processo d'Appello a Pietro Pacciani, colui che assolse in secondo grado il contadino di Mercatale, il dottor Francesco Ferri, escluse categoricamente una conoscenza fra Pacciani e i sardi. Nel suo libro "Il Caso Pacciani", il dottor Ferri dichiarava infatti: "...che il Mele conoscesse il Pacciani nessuno lo afferma ed il Mele stesso, quando gliene fu domandato dopo che Pacciani era comparso nel processo, ha sempre negato ogni conoscenza, benché semmai avesse tutto l'interesse a dir cose che potessero portare alla condanna del Pacciani..."
Ora è vero che Ferri parla semplicemente di una inesistente conoscenza fra Pacciani e Mele e questo non toglie che Pacciani avesse potuto conoscere il Francesco Vinci, ma quello che riporta Ferri è altamente indicativo perché ci fa sapere come la stessa Procura fosse alla spasmodica ricerca di un punto di contatto fra il Pacciani e i sardi, tanto da chiedere conto a Mele di un'eventuale conoscenza. E questo dimostra una volta di più come le dichiarazioni di Sgangarella e Calamosca fossero ritenute dalla Procura del tutto e completamente inattendibili.

Ricapitolando la gran mole di informazioni riversate in queste poche righe, a favore di un Vinci coinvolto nella vicenda MdF abbiamo:
▪ due personaggi di molto dubbia moralità che sostengono una conoscenza fra Francesco Vinci e Pacciani che potrebbe spiegare il famoso passaggio di mano della pistola (ove ovviamente si reputasse che il primo delitto sia stato opera dei sardi e i successivi del Pacciani o dei CdM);
▪ le tragiche morti, molto simili e molto vicine nel tempo, del Vinci e della Malatesta, che farebbero appunto pensare a una stretta connessione fra questi due eventi; il Calamosca dichiara a questo proposito che il Vinci (divenuto testimone scomodo) sarebbe stato ucciso proprio poco prima che cominciasse il Processo Pacciani per scongiurare la possibilità che potesse parlare; eventualmente la Malatesta sarebbe stata uccisa anch'ella per lo stesso motivo;
▪ a questi due punti si aggiungerebbero (per quello che possono valere) le dichiarazioni rilasciate dal futuro reo-confesso Giancarlo Lotti durante il Processo ai CdM, secondo cui il duplice omicidio del 1983 di Giocoli era stato commesso dai Compagni di Merende appunto per far scarcerare Francesco Vinci, detenuto perché fortemente sospettato di essere il MdF. Parleremo in seguito dell'attendibilità del Lotti e di come questa dichiarazione apparve altamente inverosimile anche in sede processuale.

Per contro, abbiamo:
▪ la certezza che almeno Sgangarella sicuramente menta: le sue spiegazioni sulla conoscenza e sulle rivelazioni del Vinci sono state smentite già in sede processuale da prove documentali;
▪ la consapevolezza che, a parte Calamosca, nessuno nel giro di via Faltignano (la via dove abitavano in due case confinanti sia Milva con la mamma, che il mago Indovino) conferma la relazione fra Vinci e la Malatesta;
▪ la morte del Vinci, almeno a sentire molti degli inquirenti che hanno indagato in merito, potrebbe essere completamente indipendente dalla vicenda del MdF; anche il già citato luogotenente dei carabinieri, Luciano Fattorini, nella già citata intervista a Francesco Cappelletti, dichiara di non ritenere tale morte collegata con i fatti del Mostro; da notare che tali dichiarazioni arrivano da qualcuno che, al contrario, avrebbe interesse a individuare un collegamento fra la morte di Francesco e la vicenda del MdF, dato che - come ben sappiamo - i carabinieri hanno sempre creduto e verosimilmente tuttora credono in un MdF da ricercare nell'ambiente sardo;
▪ la morte del piccolo Mirko, in compagnia della mamma, farebbe pensare più a un delitto maturato in ambito familiare che non connesso alle vicende MdF; a meno di non pensare che anche un bimbo di tre anni potesse essere venuto in possesso di inconfessabili segreti;
▪ gli indizi a carico del marito della Malatesta per la morte di Milva, erano piuttosto pesanti; l'uomo era stato poi assolto, ma i dubbi sulla sua colpevolezza rimangono. Questo implicherebbe che l'omicidio di Milva sarebbe maturato per questioni familiari e nulla avesse a che fare col Vinci e con la questione del Mostro;
▪ il delitto del 1974 rimarrebbe tagliato fuori; infatti, ammettendo che Calamosca abbia detto il vero, se Vinci e Malatesta hanno cominciato a frequentarsi nei primissimi anni '80 (o anche alla fine degli anni '70) e dunque Vinci ha conosciuto Pacciani a quell'epoca e a quell'epoca risale il passaggio di mano della pistola, Pacciani non potrebbe aver commesso il delitto del 1974; di qui la necessità di ricorrere ad altri punti di contatto, come il già citato pastore sardo, Giuseppe Barrui;
▪ le dichiarazioni di Vigna che – nonostante gli facesse molto comodo il collegamento fra Vinci e Pacciani - con grande onestà intellettuale fa capire di non credere affatto a quanto affermato da Calamosca e Sgangarella;
▪ le dichiarazioni del giudice Ferri che indicano come la Procura avesse cercato in svariate direzioni il punto di contatto fra sardi e Pacciani, senza comunque trovarlo;
▪ per quello che può valere, infine, nel marzo 2001, la signora Vitalia Melis, moglie di Francesco Vinci, fu ascoltata dal Pubblico Ministero Paolo Canessa. In quell'occasione la donna si disse certa dell'innocenza di Francesco nei delitti del MdF, inoltre affermò che le sue frequentazioni "sancascianesi" fossero assolute falsità. La donna dichiarò dunque che Francesco Vinci non frequentava Milva Malatesta e non conosceva Pietro Pacciani.


2 commenti:

  1. poveri compagni di merenda ,completamente innocenti,ma vi pare che 4 handicappati

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