Mele e Mucciarini


Come visto, dopo il duplice omicidio di Giogoli, gli inquirenti pensarono che l'azione delittuosa fosse stata portata a termine da un complice di Francesco Vinci per dimostrarne l'innocenza.
Il Vinci rimase quindi in carcere mentre le indagini continuarono a rimestare nell'ambiente dei sardi, convinti che ivi fosse la soluzione del caso.
È probabilmente a questo periodo che risale la prima rottura fra gli organi inquirenti, quella che presto sarebbe divenuta un'insanabile voragine e che tanto avrebbe condizionato le successive indagini sul serial killer delle coppiette.
Da un lato il giudice istruttore Mario Rotella, che era subentrato a Vincenzo Tricomi, cercava il killer all'interno della cosiddetta Pista Sarda; dall'altro la Procura di Firenze iniziò a ipotizzare un mostro estraneo all'ambiente sardo, qualcuno che avesse ucciso i tedeschi (errore o meno che fosse) non per scagionare Francesco Vinci.
Perseguendo la pista sarda, negli uffici del Giudice Istruttore agli inizi del 1984 prese corpo l'idea di un coinvolgimento della famiglia Mele sia nel delitto del 1968, sia nei successivi del Mostro.
Tutto probabilmente nacque il 16 (secondo Mario Spezi) o il 17 (secondo Giuseppe Alessandri) gennaio 1984, durante l'ennesimo e inutile interrogatorio nei confronti di Stefano Mele, ancora residente in una struttura a Ronco dell'Adige.
In quell'occasione il Mele scagionò improvvisamente tutte le persone da lui in precedenza accusate, compreso Francesco Vinci, dichiarando di non avere memoria di chi fosse con lui a compiere l'omicidio del 1968, forse qualcuno esterno alla sua cerchia. Per la precisione il Mele usò le seguenti parole: "In ogni caso non si tratta di persona a me cara".
Al termine dell'interrogatorio venne trovato nel suo portafoglio un bigliettino tutto stropicciato, dove era scritto testualmente:
"RIFERIMENTO DI NATALE riguaRDOLO ZIO PIETO. Che avesti FATO il nome doppo SCONTATA LA PENA. COME RisulTA DA ESAME Ballistico dei colpi sparati".
Si trattava con ogni evidenza di un suggerimento fatto pervenire al Mele su come comportarsi e cosa dichiarare in occasione di un non meglio precisato interrogatorio. Da notare come il "riferimento di Natale riguardo lo zio Pieto" richiamava molto probabilmente una confidenza, apparsa ai più genuina, che nel 1968 si era lasciata sfuggire il piccolo Natalino nei confronti degli inquirenti. In quell'occasione Natalino rivelò che era stato lo zio Pietro Mucciarini a suggerirgli di dire ai carabinieri di aver visto la notte dell'omicidio "Salvatore fra le canne".
L'essere chiamato in causa come qualcuno che cercava di far ricadere la responsabilità dell'omicidio su Salvatore Vinci aveva evidentemente preoccupato il Mucciarini, tanto che quattordici anni dopo, nel momento in cui Stefano Mele tornava al centro delle indagini, gli era stato fatto recapitare un biglietto in cui gli si davano non meglio precisate istruzioni su cosa dichiarare.
A complicare la situazione della famiglia Mele, nei giorni seguenti, il 21 o il 22 gennaio (le fonti sono incerte), si presentò presso la caserma dei carabinieri di Scandicci, la signora Iolanda Libbra, ex amante di Giovanni Mele, fratello minore di Stefano.
La Libbra dichiarò che era spaventata sia dai comportamenti del suo ex amante, sia dagli oggetti che aveva visto in suo possesso. Raccontò che l'uomo prediligeva avere rapporti in automobile, che in un'occasione l'aveva portata nella campagna di Roveta dove era avvenuto l'omicidio del giugno del 1981 e in altre occasioni nei pressi di un vecchio cimitero a San Casciano. Disse che Giovanni conservava nel bagagliaio della propria auto riviste pornografiche, corde e coltelli di grosse dimensioni e che a tal proposito le aveva illustrato a parole la tecnica dell'incaprettamento. Raccontò inoltre che negli ultimi tempi, l'uomo viveva con il cognato Piero Mucciarini, marito della sorella Antonietta, defunta da poco, con il quale litigava spesso per questione di soldi. Espose infine il dubbio che Giovanni Mele potesse essere proprio il Mostro di Firenze.
Di fronte a tali gravi e più o meno circostanziate accuse, gli inquirenti cominciarono a rivolgere le proprie attenzioni sui componenti maschili della famiglia Mele e in special modo sui due cognati che, dopo la morte di Antonietta Mele, adesso condividevano la medesima abitazione. Non sfuggì loro probabilmente neanche il fatto che Giovanni Mele viveva e lavorava nel varesotto e tornava nella provincia fiorentina tutti i fine settimana. Guarda caso, fino a quel momento, i delitti ai danni delle coppiette, a parte quello del 1968, erano stati tutti commessi durante i weekend, ma mai di domenica, giorno in cui verosimilmente il Mele sarebbe dovuto rientrare presso la propria sede lavorativa (per una curiosa coincidenza, il primo delitto del Mostro commesso di domenica sarebbe stato quello successivo, quando il Mele era in carcere).
Forti di questi nuovi sospetti, il 24 gennaio gli inquirenti tornarono a interrogare Stefano Mele e stavolta chiesero conto anche del biglietto trovato nel suo portafoglio.
Coincidenza, il Mele cambiò ancora una volta versione e prese a sostenere che ad averlo accompagnato ed essere stati suoi complici nell'omicidio del 1968 furono proprio suo fratello minore Giovanni Mele e suo cognato Piero Mucciarini. Dichiarò inoltre che la pistola verosimilmente era rimasta nelle loro mani. A proposito del biglietto disse che era stato proprio Giovanni a darglielo in occasione di un incontro avvenuto l'anno precedente (probabilmente il 25 agosto 1982, dunque subito dopo l'arresto di Francesco Vinci, NdA).
A questo punto, però, di fronte a questo ennesimo cambio di accuse da parte del Mele, non possiamo fare a meno di formulare un paio di ipotesi, di cui solo una può essere ritenuta corretta:
► o il Mele aveva l'acclarata capacità di capire verso chi si indirizzassero i maggiori sospetti degli inquirenti e puntualmente - forse per compiacerli - avvallava questi sospetti, cambiando repentinamente versione e cominciando o tornando ad accusare il maggiore sospettato di turno;
► oppure il Mele si limitava a ripetere senza alcun tipo di sagacia ciò che gli organi inquirenti gli imponevano o gli suggerivano di dire, magari tramite domande suggestive; e dunque ciò che, a distanza di anni, i mostrologi hanno letto e continuano a leggere sui verbali di interrogatorio non possono essere propriamente definite dichiarazioni genuine del Mele, ma per lo più indotte da chi lo interrogava.
Questa seconda possibilità sta tornando prepotentemente a galla dopo le ultime interviste rilasciate da un ormai adulto Natalino Mele al documentarista Paolo Cochi. In una di queste, Natale afferma che ai tempi degli interrogatori veniva minacciato dagli inquirenti (addirittura parla di minacce con un accendino) affinché rilasciasse dichiarazioni in linea con quanto loro si aspettavano.
Tali dichiarazioni - che chi scrive non sa se corrispondano a verità - hanno indotto molti mostrologi a ritenere che anche nei confronti di suo padre potessero essere state applicate tecniche di interrogatorio simili e dunque non era Stefano Mele a cambiare repentinamente idea accusando ora uno ora l'altro, ma erano gli inquirenti a indurlo ad accusare ora uno ora l'altro a seconda della direzione dei loro sospetti. A parziale e certo non definitiva conferma, poco prima di morire nel 1995, lo stesso Stefano Mele ebbe modo di dire di aver ricevuto "botte, tante botte" durante gli interrogatori cui era sottoposto.

In ogni caso, ovunque sia la verità, il 25 gennaio 1984 venne effettuata una perquisizione nelle abitazioni dei due nuovi sospettati.
In casa del Mucciarini non venne rinvenuto nulla di significativo. L'uomo, sessantenne, fornaio ed ex alcolista che a causa della sua dipendenza era stato disoccupato per diversi anni, rigettò ogni accusa e obiettò che né lui, né Giovanni erano possessori di un'automobile nel 1968 e dunque non avrebbero mai potuto accompagnare Stefano Mele a compiere l'omicidio. Il Mucciarini fece intendere a tal proposito che Stefano Mele potesse aver fatto confusione fra i cognati. Disse infatti che all'epoca l'unico a possedere un'automobile era Marcello Chiaramonti, marito di Teresa Mele, altra sorella di Stefano e Giovanni.
Decisamente più interessanti furono le perquisizioni a casa e nell'automobile del sessantunenne muratore, Giovanni Mele. Nell'occasione furono rinvenute svariate riviste pornografiche, alcuni coltelli, la lama di un bisturi, cartine delle colline fiorentine, un flacone di solvente, appunti del tipo "1 dicembre, luna piena, giorno favorevole" e un pelo pubico nel portafogli. Tutto materiale in linea con le dichiarazioni rese dalla Iolanda Libbra.
Per gli inquirenti ce n'era (ancora una volta) abbastanza per poter trasformare i sospetti in certezza. Su richiesta del Giudice Istruttore Rotella, il 26 gennaio 1984, i carabinieri procedettero all’arresto di Giovanni Mele e di Pietro Mucciarini. Stavolta c'era la piena convinzione di aver interrotto la scia di sangue.
I toni della stampa furono per lo più trionfalistici e da più parti – purtroppo anche fra l'opinione pubblica - si ritenne che il pericolo fosse passato. Tutto ciò non fece altro che favorire il vero MdF, pronto a colpire nuovamente e nella maniera più atroce.
A tal proposito, il 29 gennaio, dalle pagine del Corriere della Sera, il Procuratore Capo della Repubblica, Enzo Fileno Carabba, lanciava l'allarme: "Ogni respiro di sollievo è preoccupante; c'è un ventaglio enorme di ipotesi possibili".
Qualche giorno dopo l'arresto, la dottoressa Silvia Della Monica lasciò le indagini che aveva condotto fin dal giugno del 1981 per conto della Procura di Firenze. Sul motivo del suo abbandono ci sono diverse versioni, alcune piuttosto inverosimili. C'è chi sostiene che avesse paura del MdF; altri che avesse identificato il MdF in un uomo talmente potente da reputare opportuno abbandonare il caso; oppure (e questa possibilità sembra un po' più verosimile) che fosse attesa a incarichi diversi, magari di maggior prestigio; infine c'è la versione della stessa Della Monica, la quale ebbe modo di dichiarare in un documentario di History Channel dedicato al Mostro, che il suo abbandono fu dovuto a un disaccordo di vedute con gli Uffici del Giudice Istruttore e cioè all'insistenza da parte di quest'ultimo nel voler perseguire la pista sarda.
Difatti, come dicevamo a inizio di questo capitolo, si consumò in quei giorni la definitiva e clamorosa rottura fra gli inquirenti:
● da una parte la Procura di Firenze e la Polizia, convinti che si dovesse cercare un serial killer estraneo ai sardi e probabilmente ancora sconosciuto;
● dall'altro lato gli uffici del Giudice Istruttore Rotella, che si avvalevano prevalentemente dei servigi dell'Arma dei Carabinieri, convinti di dover continuare a indagare nell'ambiente sardo.
Col tempo questa spaccatura divenne talmente profonda che, quando nel 1989, il giudice Mario Rotella archiviò per sempre la Pista Sarda e assolse per insufficienza di prove tutti gli indagati, l'Arma dei Carabinieri decise di non occuparsi più del caso.

Frattanto con 3 uomini in carcere (Francesco Vinci, Giovanni Mele e Pietro Mucciarini), nel luglio del 1984 il MdF commise a Vicchio, nel Mugello, un duplice omicidio che portava in maniera inequivocabile la sua firma.
Dopo il terribile delitto di Vicchio, Giovanni Mele e Pietro Mucciarini uscirono dal carcere il 2 ottobre 1984 senza neanche troppe scuse da parte degli inquirenti.
Francesco Vinci invece venne scarcerato il 26 ottobre 1984, fuggì in Francia, tornò in seguito a Firenze dove – come detto – nel 1993 trovò una tragica e ancora adesso inspiegata morte.




3 commenti:

  1. Lo zio Pieto (con la I, senza sembra un'altra cosa). Ciao

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    1. Grazie. Per evitare refusi ho riportato testualmente lo scritto.

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  2. pensa te quanto ci capivano sti investigatori, avranno arrestato una decina di innocenti senza azzeccarne una,a cominciare da spalletti

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