Il Processo Pacciani


Il 19 aprile 1994 ebbe inizio, con gran clamore mediatico, il processo di primo grado nei confronti di Pietro Pacciani, ritenuto unico autore dei delitti storicamente attribuiti al Mostro di Firenze.
Il processo era presieduto dal dottor Enrico Ognibene, all'epoca cinquantatreenne, di origini spezzine, laureatosi a Firenze, figlio di un ex Procuratore Generale, amante della caccia e della pesca.
Giudice a latere, cui spettava il compito di stendere la motivazione della sentenza, era il dottor Michele Polvani, 46 anni, fiorentino, ex sostituto procuratore.
La Pubblica Accusa era rappresentata dal dottor Paolo Canessa, anch'egli di 46 anni, Sostituto Procuratore a Firenze dal 1983 e titolare dell'inchiesta sul Mostro dal 1984. Nonostante la giovane età, Canessa si era già distinto come uno dei più brillanti e valenti magistrati della Procura fiorentina.
Il collegio difensivo era composto dagli avvocati Pietro Fioravanti e Rosario Bevacqua.
Fioravanti, cinquantenne marchigiano, ex professore di filosofia in un liceo classico, aveva completato gli studi di giurisprudenza in tarda età, conseguendo una seconda laurea a 42 anni. Era stato difensore di Pacciani già all'epoca del processo per i reati commessi sulle figlie, divenendo in seguito amico e confidente della famiglia.
Bevacqua, sessantunenne di origini siciliane, ex tenente dei carabinieri nei sommozzatori a Firenze, penalista di fama sin dal 1962, era stato allievo del celebre Dante Ricci, l'avvocato che nel 1951 aveva difeso Pacciani per il delitto della Tassinaia e che nel 1970 aveva difeso Stefano Mele per l'omicidio Locci-Lo Bianco.
Dei giudici popolari ordinari, tre erano insegnanti, tre erano impiegati. Tutti, eccetto uno, sposati con figli.
Il fascicolo del dibattimento contava 30.000 fogli. I soli verbali di udienza erano composti da 7.200 pagine.
Il Processo si presentava, sin dalle sue prime battute, come puramente indiziario. Prove concrete a carico di Pietro Pacciani non c'erano. Nonostante infinite perquisizioni, l'arma dei delitti non era mai stata trovata; nonostante le numerosissime segnalazioni e gli ancor più numerosi interrogatori, un testimone in grado di sciogliere i numerosi dubbi non era mai stato trovato.
Gli indizi raccolti dalla SAM su cui si basava l'impianto accusatorio erano:
● Il delitto del 1951 in cui Pacciani aveva ucciso il Bonini con una doppia arma (coltello e scarpa/sasso/bastone) e poi aveva obbligato la fidanzata a un rapporto sessuale accanto al cadavere. Come Pacciani nel 1951, anche il MdF infieriva sulle sue vittime con una doppia arma (pistola e coltello). Inoltre, il delitto del 1951, a detta dell'accusa, era l'unico altro delitto commesso nella provincia di Firenze a danno di coppie appartate, prima di quelli del MdF. Infine Pacciani prima di commettere l'omicidio del 1951 era rimasto a spiare la coppia in intimità, cosa che - secondo l'Accusa - probabilmente faceva anche il mostro.
● L'estrazione geografica del Pacciani. Il contadino conosceva benissimo i luoghi in cui era solito colpire il MdF. Due duplici delitti (1974 e 1984) su otto erano stati commessi nel Mugello dove Pacciani era nato, cresciuto e aveva lavorato; quattro invece erano stati commessi nella zona sud-ovest di Firenze, attorno a Scandicci e alla Val di Pesa, dove Pacciani si era trasferito nel 1973. Da notare che il luogo dei due delitti del Mugello era prossimo alla campagna della Tassinaia dove Pacciani aveva ucciso il Bonini (in un raggio di 2 km in linea d'area).
Rimanevano fuori da queste due zone geografiche i delitti di Signa e Calenzano. Ma la Procura aveva scoperto che nel 1968 a Signa, vicinissimo a dove abitava il Lo Bianco, si era trasferita Miranda Bugli, ex fidanzata e correa del Pacciani ai tempi del delitto della Tassinaia. Mentre a Calenzano abitava quello che la Procura definiva un intimo amico del Pacciani e che sospettava gli avesse fornito appoggio logistico per commettere il delitto delle Bartoline (trattasi di Giovanni Faggi, successivamente imputato e assolto durante il processo ai CdM).
● Basandosi sulla scoperta che Miranda Bugli abitava a Lastra a Signa nel 1968, la Procura aveva cominciato a seguire gli spostamenti della donna nel corso degli anni per arrivare alla conclusione che spesso lei aveva vissuto in zone dove il MdF aveva colpito. La Procura formulò dunque l'ipotesi che Pacciani era ossessionato da questa donna, la seguiva negli spostamenti e uccideva in zone limitrofe a dove lei abitava per rivivere quello che era stato il tragico delitto della Tassinaia, evento che aveva segnato profondamente la sua vita, cagione probabilmente della sua infelicità e della sua rovina: gli anni trascorsi in carcere, lei che aveva contravvenuto alla promessa fatta davanti al cadavere del Bonini e si era sposata con un altro uomo, lui che era uscito dalla prigione moli anni dopo ed era stato costretto a prendere in moglie una donna psichicamente labile come la Angiolina.
A questo proposito, bisogna però notare che:
1. le scene del crimine direttamente connesse alla Bugli sono esclusivamente due: appunto a Signa nel 1968 e a Mosciano nel giugno del 1981, periodo in cui la donna aveva lavorato alla Casa del Popolo di Scandicci, distante meno di 5 km da via dell'Arrigo, teatro del duplice omicidio in cui avevano trovato la morte il Foggi e la De Nuccio.
2. le indagini condotte dalla SAM per appurare la presenza di Pacciani a Lastra a Signa nel 1968 erano state infruttuose. Nell'udienza del 14 luglio 1994 del Processo Pacciani, infatti, l'avvocato difensore Rosario Bevacqua chiese esplicitamente all'ispettore di polizia Riccardo Lamperi, vice di Perugini nella SAM, se fossero stati fatti accertamenti sul passaggio del Pacciani a Lastra a Signa ed eventualmente se ivi qualcuno avesse mai visto il Pacciani. Lamperi rispose che ovviamente gli accertamenti erano stati fatti ma non risultava alcun avvistamento dell'imputato.
Questa è una precisazione doverosa perché ultimamente si sente dire in alcuni ambienti mostrologici di estrazione merendara che, sulla base di alcune dichiarazioni del testimone Lorenzo Nesi, nel 1968 Pacciani e Vanni frequentavano un bar di Lasta a Signa. Fino a prova contraria, tuttavia, possiamo affermare che non solo non esistono tracce di Pacciani a Lastra a Signa nel 1968, ma all'epoca Pacciani e Vanni neanche si conoscevano.
● Andiamo comunque avanti con gli inizi a carico del Pacciani: come era emerso dai verbali del 1951, in occasione dell'omicidio della Tassinaia, l'ira del Pacciani era esplosa quando aveva visto il Bonini denudare il seno sinistro della Bugli. Il MdF nel 1984 e nel 1985 aveva escisso proprio il seno sinistro dai cadaveri delle vittime femminili; nell'ottobre del 1981 lo aveva ferito con una coltellata. Inoltre, la sua amante, la Maria Antonietta Sperduto, aveva dichiarato che Pacciani era solito esercitare una certa violenza nei confronti soprattutto del suo seno sinistro.
● Pacciani aveva precedenti per abusi sessuali nei confronti delle figlie, ripetutamente violentate sin da quando queste erano poco più che bambine, a indicare una spiccata depravazione sessuale. Questo punto è tuttora estremamente controverso, soprattutto perché non c'è alcun nesso diretto fra la violenza sulle proprie figlie e i delitti del Mostro.
● Pur avedo trascorso diversi anni in carcere, Pacciani era stato sempre libero durante gli omicidi del MdF.
● Pacciani aveva buona dimestichezza con le armi da fuoco, cosa che invece l'imputato ha sempre negato con forza. La Procura aveva raccolto diverse testimonianze a riguardo: c'era chi asseriva (il signor Bruni) che fosse stato addirittura possessore di una Beretta Calibro 22 mai denunziata; chi sosteneva che fosse un abile cacciatore e addirittura sparasse ai fagiani con una pistola (il Nesi) e chi infine una pistola di proprietà del Pacciani l'aveva proprio vista. Fra questi, il Vanni aveva riferito ad alcuni conoscenti (ad esempio i coniugi Ricci e Mazzei) di aver visto una pistola nel vano porta-oggetti dell'automobile del Pacciani.
In uno dei suoi memoriali, Pacciani aveva giustificato tale pistola sostenendo che fosse stata una semplice scacciacani e l'avesse sequestrata ai figli di Afro Gazziero, l'imprenditore presso cui aveva lavorato dal 1982 al 1984, i quali avevano l'abitudine di giocare nei pressi della sua automobile.
● Pacciani era solito scrivere la parola "Repubblica" con una sola B. Giova ricordare a tal proposito come sulla busta della lettera contenente un lembo del seno di Nadine Mauriot spedita alla Della Monica, la parola "Repubblica" era appunto stata scritta con una B.
● Durante le varie perquisizioni nelle sue due case, si era scoperto che il Pacciani, oltre a fare grande uso di riviste pornografiche, possedeva diversi articoli di giornale che parlavano del MdF e foto di donne con pubi disegnati da lui stesso a matita.
● Sempre durante una delle perquisizioni era stato ritrovato un appunto del Pacciani in cui era segnato il numero di targa di una automobile con accanto scritto "coppia". Si appurerà in seguito che quella targa apparteneva effettivamente a una coppia che era solita appartarsi fra Mercatale e San Casciano.
Venne inoltre ritrovato un altro appunto in cui Pacciani riportava la distanza in chilometri fra Mercatale e Vicchio.
Al processo, l'imputato si giustificherà affermando nel primo caso che si era appuntato la targa di una coppia, perché voleva avvisarla del pericolo che correva ad appartarsi in automobile; nel secondo che aveva segnato la distanza fra Mercatale e Vicchio su richiesta dell'amico Simonetti, che doveva compiere commissioni in Mugello, per calcolare quanta benzina sarebbe occorsa.
● Infine, nel corso del Processo, diversi cittadini giunsero a rendere testimonianza, alcuni sull'attività di guardone di Pacciani, altri riportarono di aver visto un personaggio con le fattezze simili alle sue aggirarsi in prossimità della piazzola degli Scopeti nei giorni precedenti all'omicidio.
A questo proposito, secondo il giornalista Amadore Agostini, ascoltato dal sottoscritto nel maggio 2019 e originario proprio di Mercatale, era risaputo in paese che Pacciani fosse solito svolgere l'attività di guardone per i boschi e le campagne attorno a San Casciano. Lo stesso Agostini mi ha rivelato di avere avuto esperienze dirette riguardanti l'attività di guardone del Pacciani.
Accanto a questi indizi che è evidente avessero una valenza per lo più suggestiva ce n'erano però tre che avevano una valenza probatoria ed erano precisamente:


1. Il blocco Skizzen Brunnen
In una perquisizione del 2 giugno 1992 venne trovato su un ripiano della libreria nel salotto di casa Pacciani un blocco da disegno con copertina rossa di marca Skizzen Brunnen, prodotto e venduto quasi esclusivamente in Germania. Più precisamente, dalle indagini si poté appurare - almeno a parere dell'accusa - che tale blocco era stato venduto nella cartoleria "Prelle Shop" della città di Osnabruck, in Bassa Sassonia, zona da cui provenivano i ragazzi tedeschi uccisi a Giogoli nel 1983 e in particolare dove il giovane Horst Meyer aveva studiato.
In realtà, che il blocco fosse stato davvero venduto nella suddetta cartoleria non è propriamente certo; sono state condotte a tal proposito diverse perizie calligrafiche per accertare che le differenti scritture del prezzo e di un non meglio identificato codice riportati sul retro del blocco fossero compatibili con le grafie di due commessi del negozio. Tali perizie non hanno portato a risultati univoci. Pur tuttavia, resta parere abbastanza diffuso in Mostrologia che effettivamente il blocco potesse provenire dal su citato negozio. Per esempio, anche il giudice Francesco Ferri, estensore della sentenza di assoluzione di Pacciani in secondo grado, ritenne altamente probabile che fosse quella l'origine del blocco, pur non ritenendo nel complesso questa una prova a carico del Pacciani.
Difatti, pur ammettendo che il blocco provenisse del "Prelle Shop", non esiste certezza che fosse realmente appartenuto a una delle vittime di Giogoli, anche perché il prezzo riportato in marchi sul retro del blocco sembrava indicare che lo stesso fosse stato venduto attorno al 1980/81 e cioè due/tre anni prima del viaggio dei ragazzi tedeschi in Italia e quando ancora il Meyer non studiava a Osnabruck. Ma anche ammettendo che effettivamente il blocco fosse appartenuto alle due vittime, potrebbe risultare difficile credere (anche se aprioristicamente non impossibile) che Pacciani dopo aver commesso l'omicidio non avesse portato via cose di valore come soldi o macchine fotografiche (pur presenti all'interno del furgone) e si fosse appropriato di un blocco da disegno.
La Difesa ha sempre sostenuto a tal proposito che l'imputato fosse un accanito frequentatore di discariche e solito rovistare fra le immondizie alla ricerca di oggetti da portare a casa, dunque la possibilità che si fosse impadronito del blocco in una di queste occasioni era alta. A conferma di ciò la zona su cui sorgeva San Casciano, così come il vicinissimo Chianti, era meta ambita da parte dei turisti tedeschi. Rush e Meyer non erano stati certo gli unici a venire in vacanza in Italia e portarsi dietro oggetti di marca tedesca e reperibili solo in Germania.
Inoltre, nelle prime due pagine del blocco erano stati riportati a mano dal Pacciani alcuni appunti riguardanti attività e pagamenti da lui effettuati in data 10 luglio 1980 e 13 luglio 1981. Per completezza d'informazione riportiamo questi appunti:
Foglio 1:
"Pagato L. 16.000 alla Sig della Caccia e Pesca della Domanda per la caccia fra la quale Certificato Medico Libro per conoscenza degli animali domanda di ammissione alla scuola o allegato il foglio di congedo Fotocopia e il Certificato Penale che me lo deve restituire dopo averlo fatto vedere al di Bella Brigadiere, oggi 10 luglio 1980 mi deve arrivare la risposta per esami".
Foglio 2:
"Fatta visita oculistica per occhiali L. 25.000 già ordinati per martedì sera ore 7. giorno 15 luglio 1980 due diotrie più".
Foglio 3:
"Oggi 13 luglio 1981
Prendo dal Lotti un Ballino di cemento per murare la porta del gas e due cariole di sabbia e 6 kg di cemento a Pronta L. 8000 Manodopera da me svolta giorni 2"
.
Foglio 4:
"Oggi 13 luglio 1981
Prendo dal Bruci Franco una portiera per il gas L. 18.000
Per mettere il telefono chiamare la mattina il 187. Ufficio Commerciale Sip, nome cognome e indirizzo"
.
Ora, se queste annotazioni fossero genuine, sarebbero state vergate almeno un paio d'anni prima il duplice omicidio di Giogoli.
Il dilemma è tutto qui: erano genuini questi appunti?
Per la Pubblica Accusa, sicuramente no. Erano annotazioni scritte a posteriori dall'imputato per far credere di essere stato in possesso del blocco già da prima del delitto di Giogoli. Del resto, sosteneva l'Accusa, chi scriverebbe delle annotazioni personali in quel modo? E a legger bene, difficilmente si potrebbe dar loro torto.
D'altro canto, la Difesa del Pacciani sosteneva che non avrebbe avuto senso per l'imputato non disfarsi di quel blocco di così compromettente provenienza una volta rientrato nel mirino delle forze dell'ordine per i delitti del Mostro e aver subito le prime perquisizione. Bastava farlo sparire per non lasciare alcuna traccia, piuttosto che scrivervi sopra qualche appunto e lasciarlo in bella vista sulla mensola di una libreria.
Le indagini successive non furono in grado di stabilire con univoca certezza se i pagamenti e le commissioni riportati negli appunti fossero stati realmente effettuati nelle date in cui erano stati segnati, però erano sicuramente coerenti con le attività svolte dal Pacciani in quel periodo; anche le cifre riportate erano coerenti con quelle dell'epoca. Questo rappresentava un punto a favore della Difesa, secondo cui era impossibile ipotizzare che Pacciani avesse potuto ricordare - a distanza di circa dieci anni - con tanta precisione attività e pagamenti effettuati. Per l'Accusa era invece palese che quegli appunti erano stati semplicemente copiati da qualche altra agenda e aggiustati in modo che non vi fossero dubbi circa la loro datazione; insomma quello di Pacciani sarebbe stato il classico errore di chi si credeva troppo furbo.
In definitiva, anche sul blocco non vi è uniformità di giudizio, le prove mancano e le certezze scarseggiano, pur tuttavia lo Skizzen Brunnen rimane ancora oggi - a parere di chi scrive - l'indizio forse più pesante a carico di Pietro Pacciani.


2. Il portasapone Deis
Venne trovato in casa del Pacciani un portasapone di sospetta marca tedesca, Deis, che fu riconosciuto dai parenti del Meyer come appartenente al congiunto ucciso.
Anche in questo caso valgono tutte le considerazioni espresse sopra. Oltretutto il riconoscimento da parte dei parenti del Meyer non fu di quelli che possono definirsi sicuri. La matematica certezza che quel portasapone fosse appartenuto al Meyer non c'era mai stata e anche se così fosse stato, mancava la certezza che il Pacciani se ne fosse impadronito dopo aver commesso il delitto e non qualche tempo dopo, magari rovistando in una discarica dalle parti di Giogoli.


3. La cartuccia nell'orto
L'indizio principale era dato dalla famosa cartuccia trovata dal capo della SAM in persona, Ruggero Perugini, nell'orto del Pacciani in occasione della maxi-perquisizione condotta fra l'aprile e il maggio del 1992 (vedasi capitolo Il contadino di Mercatale).
Come già riportato, fra il tardo inverno e l'inizio della primavera del 1992, Pacciani venne notato in diverse occasioni cercare qualcosa nel proprio orto. Verso la fine dell'aprile del 1992 le perlustrazioni del contadino si erano fatte talmente intense e prolungate da spingere Vigna a ordinare una profondissima perquisizione in casa Pacciani. La mattina del 27 aprile 1992 ebbe così inizio la celebre perquisizione. Al terzo giorno, il 29 aprile, venne ritrovata la cosiddetta "prova regina".
Erano le 17.45 quando, per una serie di complesse e fortuite coincidenze che qui non stiamo a riportare, lo stesso Perugini estrasse dal terreno fangoso dell'orto di casa Pacciani una cartuccia Winchester calibro 22 LR a piombo nudo, inesplosa, scarrellata e deformata, con la lettera H sul fondello che presentava buone analogie con quella incisa sui bossoli lasciati sulle scene del crimine dal MdF.
La cartuccia fu sottoposta a numerose analisi il cui fine era accertare se la pistola che l'avesse contenuta fosse stata quella del Mostro.
Ovviamente non si poté arrivare a una prova certa: durante il Processo i periti della Procura (Spampinato e Benedetti) non furono in grado di dimostrarlo al di là di ogni ragionevole dubbio. C'erano similitudini, ma non sufficienti a dare certezze. Inoltre l'esperto perito della difesa (Marco Morin, personaggio dal passato discusso e nebuloso, a tal proposito degna di nota la caustica battuta di Canessa "noi la conosciamo di fama") mise in risalto una contraddizione nella perizia Spampinato-Benedetti. Secondo Morin, infatti, i due periti nella loro relazione avevano affermato che l'impronta sul bossolo che apparentemente poteva sembrare dovuta all'estrazione, non essendo compatibile con quella lasciata dalla pistola del mostro, non era dunque una reale impronta di estrazione. Un'affermazione che lascia quantomeno perplessi chiunque abbia una minima formazione di stampo scientifico. I periti avevano di fatto capovolto l'onere della prova, utilizzando la tesi da dimostrare a mo' di ipotesi: anziché, cioè, dire che le striature verosimilmente dovute ad estrazione rilevate sulla "cartuccia Pacciani" differivano da quelle lasciate dalla pistola del MdF e dunque l'arma che aveva contenuto la cartuccia in esame non era quella del mostro, affermavano che questa differenza provava che le striature sulla "cartuccia Pacciani" non erano dovute ad estrazione.
Anche le analisi condotte sulla lettera H non diedero certezze; venne definita simile e compatibile ma non identica a quelle rivenute sulle scene del crimine.
Infine non fu neanche possibile accertare quando la cartuccia sarebbe finita nell'orto del Pacciani: si parlò di un tempo massimo di cinque anni, quando cioè l'imputato era ancora in prigione, ma risultò un dato troppo aleatorio per costituire elemento su cui dibattere in sede processuale.
Dal canto suo, Pacciani portò a propria difesa la lettera scritta dall'Anonimo Fiorentino che era stata inviata al quotidiano "La Nazione" e al suo avvocato Pietro Fioravanti cinque mesi prima della perquisizione. Come visto nel precedente capitolo, in questa lettera l'ignoto autore avvisava i destinatari che avrebbero cercato di incastrare Pacciani facendo ritrovare nel suo orto qualcosa di compromettente, come poteva essere ad esempio la pistola del MdF, debitamente invecchiata tramite acido muriatico per simulare un interramento di lungo termine.
Pacciani parlò della lettera in occasione della sua deposizione spontanea; ne fecero brevemente cenno anche gli avvocati Bevacqua e Fioravanti, pur nei limiti consentiti dalla legge, visto che si trattava di una segnalazione anonima, tanto più dell'anonimo fiorentino che stava tempestando non solo la Procura ma tutte le parti del Processo di missive decisamente sgradevoli e oltraggiose.
Forse questo fu il motivo per cui non venne dato particolare clamore mediatico alla lettera (il quotidiano "La Nazione", ad esempio, non ne aveva fatto cenno, né aveva mai pubblicato il contenuto), che pure aveva una sua rilevanza storica e giudiziaria. Sembrava infatti indicare che qualcuno sapesse chiaramente e con largo anticipo che ci sarebbe stata una perquisizione a casa Pacciani e che sarebbe stato trovato qualcosa di importante nel suo orto.
Tale lettera, dimenticata per anni fra gli archivi processuali, è tornata agli onori della cronaca nell'estate del 2018, ritrovata dal documentarista Paolo Cochi fra le carte dell'avvocato Bevacqua. Ovviamente il ritrovamento ha fatto riemergere fra i Mostrologi l'antico e mai sopito dubbio di una contraffazione del proiettile appositamente messa in atto per incastrare l'imputato.
Contraffazione che, invero, era stata già denunciata molti anni prima dal giornalista Mario Spezi nel suo libro "Toscana Nera", datato aprile 1998. In un passaggio del libro, lo Spezi riportava un colloquio da lui avuto con il maresciallo dei carabinieri Arturo Minoliti, comandante della stazione dei carabinieri di San Casciano e presente al momento del ritrovamento della cartuccia nell'orto del Pacciani.
Durante il colloquio, non sapendo di essere registrato, il Minoliti si era lasciato andare ad alcune confidenze. Sostenne fra le altre cose, infatti, che a suo parere alcune prove utilizzate contro Pacciani erano state in qualche modo "costruite" dagli investigatori, riferendosi all'asta guidamolla, allo straccio che l'avvolgeva e in special modo alla cartuccia.
Quando lo Spezi rese pubbliche queste confidenze, il Minoliti si affrettò a smentire di averle mai fatte, salvo poi essere a sua volta sconfessato dalla videocassetta "proditoriamente" registrata dal giornalista.
Tale videocassetta venne sequestrata nel giugno del 1998 dalla Procura di Firenze, nella persona del Procuratore aggiunto Francesco Fleury, che voleva far chiarezza sulla portata di queste inconsapevoli rivelazioni. La vicenda si concluse senza alcun tipo di ripercussione giudiziara, anche se il Minoliti subì un infausto trasferimento per le sue incaute dichiarazioni.
Alla querelle Spezi-Minoliti accennò l'avvocato Filastò nell'udienza del 18 maggio 1999 del processo d'Appello ai CdM per motivi che vedremo meglio nel capitolo dedicato a Mario Vanni.
In tempi recenti, a gettare ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche, è stata la perizia sul proiettile richiesta nel luglio 2019 dal nuovo PM che si sta occupando della vicenda, il dottor Luca Turco. Il perito incaricato delle analisi, Paride Minervini, si è detto certo di una contraffazione o per meglio dire manipolazione delle striature presenti. Se la manipolazione sia stata consapevole o frutto di semplice, sebbene grave, imperizia sarà oggetto di accertamento "separato" da parte del PM. Tanto è bastato tuttavia per alimentare la convinzione fra buona parte della odierna mostrologia che l'indizio principale su cui si è basato l'intero impianto accusatorio, fosse stato creato ad arte da qualcuno che aveva interesse alla condanna del Pacciani.
Nota a margine: Mi sembra doveroso segnalare che, quando il 18 maggio del 2019, al sottoscritto è capitato di discutere personalmente dell'argomento con l'avvocato Fioravanti, l'ormai anziano legale ha dato chiaramente l'impressione di:
1. essere convinto già a priori (prima della nuova perizia) che il proiettile fosse stato contraffatto da qualche personaggio poco raccomandabile;
2. ricordare solo vagamente il particolare della missiva anonima che anticipava la scoperta, per giunta sminuendola ad aspetto di scarsissima importanza nell'economia processuale e della storia. Questo ha portato il sottoscritto a ritenere (mera opinione personale) che davvero gli avvocati difensori non avessero all'epoca dato alcun peso a tale scritto, avendolo valutato come la lettera di un mitomane o persino non autentico.


Sogno di Fatascienza
Accanto agli indizi di cui abbiamo parlato finora, ce ne fu un altro che si trasformò in un vero e proprio boomerang per la Pubblica Accusa e fu il famoso quadro sequestrato a casa Pacciani, intitolato dall'imputato "Sogno di Fatascienza".
Per Perugini e la Procura di Firenze, il quadro (che in realtà poi era un disegno) era senza dubbio opera di Pacciani; rappresentava una figura orrenda, vestita da militare che brandiva una sciabola, con zampe d'asino ed enormi scarpe da tennis ai piedi. A completare il disegno c'erano un toro, una mummia, una chiave di violino, delle stelle, delle croci, numerose figure astratte, ognuna con un simbolo particolare.
Secondo l'Accusa dal quadro emergeva una carica di ferocia e perversione inaudite. Il dipinto venne sottoposto all'attenzione di diversi psichiatri, alcuni anche di notevole fama: venne fuori un profilo agghiacciante della personalità dell'autore, descritto come persona estremamente violenta, afflitta da profonde turbe di tipo sessuale.
Sul quadro c'era una data, quella del 10 aprile 1985 che, secondo l'Accusa, aveva un importante significato: era la vigilia del trentaquattresimo anniversario del giorno in cui Pietro Pacciani aveva ucciso Severino Bonini, il giorno in cui perse per sempre Miranda Bugli, che stravolse la sua vita e che fu causa dei successivi delitti. C'erano inoltre sei croci che, sempre per l'Accusa, rappresentavano le sei vittime femminili uccise dal Mostro fino a quel momento.
Quello che poteva essere un importante indizio contro Pacciani, si trasformò tuttavia ben presto nell'unico vero fallimento della Pubblica Accusa durante l'intero processo. La foto del quadro venne infatti pubblicata da diversi giornali e nel giro di pochi giorni si scoprì che l'autore non era Pacciani, ma un pittore cileno, Christian Olivares, che aveva trovato rifugio in Italia dopo esser fuggito dal suo paese in seguito al golpe di Pinochet. L'Olivares aveva realizzato il quadro a Bologna e l'aveva chiamato "Generale morte". Il suo intento era rappresentare le atrocità, l'orrore e la violenza della dittatura in Cile.
Venuto in possesso di una copia neanche troppo fedele del disegno, Pacciani si era limitato a colorarlo e a firmarlo, aggiungendovi solo particolari di scarsa importanza per l'Accusa.
Su come l'imputato fosse venuto in possesso del disegno, sono state avanzate diverse ipotesi. Il Pacciani stesso aveva scritto in uno dei suoi memoriali di averlo recuperato nei locali andati a fuoco della fabbrica di Afro Gazziero a Calenzano, dopo che era stato inviato dallo stesso Gazziero (suo datore di lavoro a San Casciano) ad effettuare operazioni di pulizia. Tuttavia, nell'udienza del 1 Giugno 1994 del Processo Pacciani, interrogato in merito dal Pubblico Ministero Canessa, Gazziero smentì di essere mai stato in possesso del quadro o di averlo mai visto prima.
L'avvocato di parte civile Luca Santoni Franchetti ipotizzò, durante la sua requisitoria finale, che Pacciani l'avesse potuto rubare dal camper dei ragazzi tedeschi dopo il delitto di Giogoli del 1983. Questa ipotesi, che comunque non ha alcun fondamento indiziario né tanto meno probatorio, nacque dal fatto che Pacciani non aveva saputo dare alcuna spiegazione convincente su come si fosse ritrovato il quadro in casa e che la sorella del Meyer aveva dichiarato a Processo che i due ragazzi fossero politicamente di sinistra, pacifisti e ambientalisti. Secondo l'avvocato, tali ideologie erano in linea con il possesso di un disegno politicamente schierato contro le grandi dittature del Sud America. Un'ipotesi accattivante ma - come già detto - basata davvero sul nulla.


Profili a confronto
Oltre al passo falso rappresentato dal quadro, ciò su cui puntò parecchio la Difesa dell'imputato fu l'evidente divergenza fra il Pacciani e il profilo del serial killer proposto dal team di criminologi di Modena, presieduto da un luminare nel campo, il professor Francesco De Fazio.
Età e condizioni di salute a parte, ciò che più strideva nel confronto era che De Fazio aveva parlato di individuo probabilmente, ma non necessariamente, scapolo, con buona presunzione affetto da iposessualità, se non addirittura incapace di avere rapporti sessuali normali con l'altro sesso. Pacciani al contrario, oltre che sposato con prole (ma questo lasciava un po' il tempo che trovava, considerando la sua situazione familiare) era sicuramente soggetto sessualmente iperattivo, uno che oltre alla moglie soleva frequentare e violentare prostitute, che era solito importunare le donne altrui, addirittura che stuprava le figlie.
Inoltre in molti, all'epoca ma anche oggi, facevano e fanno fatica a vedere in lui quel serial killer metodico, sistematico, cauto, astuto, sufficientemente organizzato da non lasciare evidenti tracce, di cui parlava De Fazio. Non che Pacciani fosse stupido, anzi, sicuramente era dotato di una buona dose di astuzia e d'istinto felino per la sopravvivenza, ma rimaneva difficilmente classificabile come metodico, organizzato, soprattutto cauto. Non per nulla era il Vampa, uno che andava in collera facilmente, a stento contenibile, violento e brutale nelle sue esplosioni d'ira.
Nonostante in sede processuale, contrariamente a quanto si aspettavano gli innocentisti, la deposizione del team De Fazio non fu in antitesi con le tesi della Pubblica Accusa, ma anzi risultò piuttosto accomodante verso l'individuazione del Pacciani, ancora oggi la divergenza di profili viene vista da buona parte della mostrologia Non Paccianista, Non Merendara, Non Giuttariana come uno dei punti fermi da cui partire per l'elaborazione di teorie alternative a quella ufficiale.


La condanna
Sulla base dei succitati indizi e delle succitate deposizioni, ma anche sulla base di nuove testimonianze da parte di chi - a distanza di anni - ricordava di aver visto Pacciani nei pressi dei luoghi di alcuni delitti, si sviluppò l'intero dibattimento, giostrato con indubbia valenza dal PM Canessa. Si alternarono scene ad altissima intensità emotiva (si pensi alla deposizione della signora Bruna Bonini, mamma di Stefania Pettini, o di Renzo Rontini, padre della povera Pia, o le deposizioni delle due figlie di Pacciani) con scene involontariamente comiche che col tempo sarebbero diventate veri e propri cult nel mondo del web (si pensi al battibecco fra l'imputato e la sua amante, la signora Maria Antonietta Sperduto).
Due furono comunque le deposizioni di particolare interesse per gli sviluppi processuali futuri: una fu la testimonianza dell'amico del Pacciani, il postino Mario Vanni, l'altra quella di un conoscente del Pacciani, tale Lorenzo Nesi.
Il Vanni rese una testimonianza talmente reticente, non solo da provocare l'ira del presidente Ognibene, ma anche da far convergere su di lui l'interesse della Procura di Firenze.
Dal canto suo, il Nesi dichiarò di aver visto il Pacciani in compagnia di un'altra persona non identificata la sera in cui verosimilmente era avvenuto il delitto degli Scopeti, in un luogo non lontano dalla piazzola stessa.
Entrambe le testimonianze porteranno la Procura ad abbandonare la pista del serial killer solitario e cercare eventuali complici del Pacciani.
A queste si aggiungerà la deposizione di un ottico, tale Ivo Longo, il quale, chiamato ex abrupto a testimoniare, dichiarerà di aver visto sempre la sera del delitto degli Scopeti, verso la mezzanotte, il Pacciani imboccare con un'automobile che non era la sua, all'altezza dello svincolo di San Casciano, la superstrada che da Siena porta a Firenze. Per la Corte si trattava dell'automobile di un complice a ulteriore conferma dell'esistenza degli stessi.

Nota Bene: A proposito di deposizioni, è opportuno far notare come nessuna delle testimonianze portate a Processo che individuavano Pacciani nelle vicinanze dei luoghi dei delitti in giorni compatibili con gli stessi, in special modo nei pressi della piazzola degli Scopeti nel settembre 1985, risalisse all'epoca dei fatti o fosse di poco successiva. Erano, invece, tutte testimonianze fornite agli inquirenti a partire dagli anni '90 (quando il nome e il volto del Pacciani era finito su tutti i giornali e tutte le televisioni), alcune anche a ridosso del Processo, altre addirittura a Processo in corso (si pensi ad esempio alla testimonianza del su citato ottico Ivo Longo o a quelle dei coniugi Cairoli e Consigli, NdA).
Tutto ciò portò a un'esasperazione dialettica dello scontro fra Accusa e Difesa e a un'autentica spaccatura nell'opinione pubblica, irrimediabilmente divisa fra Innocentisti e Colpevolisti.

Nel mese di ottobre il Processo si avviò comunque verso un incerto epilogo. Il 19 Ottobre, il PM Paolo Canessa nella requisitoria finale dichiarò esplicitamente:
"Si tenga presente, oltre all'oggettivo elemento della condizione dei luoghi di tutti gli otto delitti, anche la duplicità dello strumento lesivo: arma da fuoco e arma bianca, escluso il 1968 perché c'era il bambino, il 1982 perché la macchina si è infossata, ed il 1983 perché erano due uomini. È un elemento su cui chiedo la massima attenzione. Tenetelo presente! Stessa pistola e probabilmente stesso coltello. L'autore non puó che essere unico per tutti i delitti. O tutti o nessuno!"
Il giorno 1 Novembre 1994 arrivò la famosa Sentenza Ognibene che condannava all'ergastolo l'imputato con l'accusa di essere il responsabile di 14 dei 16 omicidi storicamente attribuiti al MdF. Pacciani venne infatti ritenuto non colpevole per il duplice omicidio del 1968, commesso evidentemente da Stefano Mele (condannato peraltro in via definitiva) con l'eventuale complicità di qualcuno del clan dei sardi. Tuttavia, considerando che il delitto di Signa era stato commesso come la stessa arma dei successivi, la Sentenza aveva il limite di non spiegare come fosse avvenuto il passaggio di pistola dalle mani dei sardi a quelle di Pacciani.
Per contro, a dispetto della tesi della Pubblica Accusa e della cosiddetta Teoria Perugini che vedeva Pacciani serial killer unico dal 1968 al 1985, la sentenza invitava la Procura a continuare le indagini perché riteneva altamente probabile che, in alcuni delitti, l'imputato potesse non aver agito da solo.
Furono ovviamente immediate, disparate e talvolta sguaiate le reazioni alla sentenza Ognibene. Fra l'esultanza dei colpevolisti e le lacrime degli innocentisti, in questa sede preferiamo riportare le parole di due giornalisti che potremmo definire obbiettivi, in quanto non direttamente coinvolti nella vicenda, e sicuramente di alto lignaggio: Corrado Augias e il fiorentino Indro Montanelli.

"Sono rimasto sorpreso, la mia idea è che dentro il processo, cioè dentro le prove e le testimonianze raccolte, la condanna non c'era. Evidentemente i giudici hanno agito in base a due ordini di motivo: o hanno dato molto peso ai precedenti, al temperamento di quest'uomo che è un uomo odioso, già riconosciuto colpevole di delitti gravi e infamanti, oppure siccome si tratta di un processo indiziario e gli indizi per costituire prova devono essere gravi e concordanti, sono riusciti a stabilire la congruità e la concordanza di indizi che a noi cronisti era per la verità sfuggita. Se ci fosse stata ancora la vecchia assoluzione per insufficienza di prove, era quello il caso in cui doveva rientrare Pacciani", le parole di Augias.

"Io credo che a questa sentenza abbia contribuito Pacciani, un uomo che non inspira nemmeno alcuna pietà... quindi può anche darsi che questa sentenza sia rispettosa di una giustizia in senso astratto, si manda all'ergastolo un uomo che merita di starci; che sia rispettosa della legge, ho qualche dubbio, perché la legge esige delle prove e mi pare che qui di indizi ce ne fossero molti, ma nessuno di questi potesse essere considerato una prova. Questa sentenza mi soddisfa solo a metà...", le parole a caldo di Montanelli.


Il Processo d'appello e la Cassazione
Con il fine di continuare a indagare su eventuali complici del Pacciani, in accordo con la Sentenza Ognibene, ma anche con l'obbiettivo di blindare la condanna in vista del Processo d'Appello, il Procuratore della Repubblica Pier Luigi Vigna chiamò nell'ottobre del 1995 a capo della Squadra Mobile di Firenze il "superpoliziotto" Michele Giuttari, che aveva prestato servizio nella DIA (Direzione Investigativa Antimafia) a Napoli e a Firenze.
Giuttari sostituiva nei compiti più che nel ruolo Ruggero Perugini, ormai da tempo rientrato negli Stati Uniti, dove aveva ripreso a esercitare la sua professione. Il lavoro di Giuttari, dapprima come capo della Squadra Mobile e dal 2003 come capo del GIDES (Gruppo Investigativo Delitti Seriali), sarà orientato principalmente a fare piena luce sul gruppo di persone che aveva commesso assieme al Pacciani i delitti storicamente attribuiti al Mostro di Firenze.
In seguito, il poliziotto si convincerà dell'esistenza di un secondo livello e concentrerà i suoi sforzi nell'individuare i cosiddetti mandanti dei delitti, i famosi notabili in guanti bianchi appartenenti a una qualche setta esoterica. Un netto distacco, dunque, dal suo predecessore Perugini, tuttora fermamente ancorato all'ipotesi di Pietro Pacciani serial killer solitario.
Frattanto, per il processo d'appello, al collegio difensivo di Pacciani si era aggiunto, non senza numerose polemiche, anche il famoso avvocato Nino Marazzita.
Il 29 gennaio 1996 cominciò il processo d'appello in un clima che sembrò da subito ben diverso, decisamente più favorevole all'imputato. Persino lo stesso Pubblico Ministero, il magistrato Piero Tony, che rappresentava la Pubblica Accusa, era andato contro i dettami della Procura chiedendo l'assoluzione per Pacciani e pronunciando la storica frase "mezzo indizio più mezzo indizio fanno zero indizi".
Per ammissione dello stesso Tony, dopo che era stato incaricato di svolgere il ruolo di Pubblico Ministero al Processo d'Appello, aveva passato un anno e mezzo a studiare le carte, maturando dentro di sé l'opinione che da un punto di vista giuridico non c'era alcun motivo per cui potesse essere confermata la condanna per il Pacciani.
Tuttavia, mentre sullo sfondo si andava delineando l'ipotesi assolutoria per l'imputato, Michele Giuttati e la procura di Firenze, nelle persone di Vigna e Canessa, lavoravano alacremente per fornire nuove prove che incastrassero definitivamente Pacciani. Trovarono un presunto testimone, Giancarlo Lotti, che dopo molte reticenze accusò Pacciani, Vanni e se stesso di essere gli autori degli ultimi quattro duplici delitti attribuiti al MdF. Come vedremo nel dettaglio nei prossimi capitoli, altri tre testimoni fornirono – secondo la Procura - dichiarazioni congruenti con la colpevolezza di coloro che presto sarebbe divenuti famosi come i "Compagni Di Merende". Oltre al Lotti, gli altri testimoni erano: l'oligofrenico Fernando Pucci, la prostituta Gabriella Ghiribelli e il di lei protettore Norberto Galli.
Il 13 febbraio 1996, la Procura fece dunque richiesta, tramite un imbarazzatissimo Piero Tony di poter portare a processo i quattro nuovi testimoni che per ragioni di sicurezza erano stati nominati con le lettere greche alfa, beta, gamma e delta.
Il presidente della corte d'assise d'appello, Francesco Ferri, rifiutò però sdegnato l'introduzione dei nuovi testimoni, sia perché ritenne sospetta la tempestività dell'azione, sia perché erano stati condotti in forma anonima, dichiarando con malcelato sarcasmo: "Non siamo a una lezione di algebra".
Quello stesso 13 febbraio arrivò dunque l'ormai scontato verdetto di assoluzione per Pacciani per non aver commesso il fatto. Il contadino di Mercatale venne scarcerato dopo 1.100 giorni di detenzione e nell'immediatezza venne ospitato presso la casa di accoglienza "Il Samaritano" a Firenze, grazie all'intercessione di Suor Elisabetta, amica e confidente spirituale del Pacciani dai tempi della sua detenzione a Sollicciano per la violenza sulle figlie.
Nella sentenza di assoluzione il giudice Ferri, sardista di vecchia data, criticò aspramente l'intero impianto accusatorio.
Una vittoria di Pirro, però, per gli innocentisti, perché qualche mese dopo, il 12 dicembre 1996, la Cassazione annullò la sentenza di assoluzione per questioni di forma e dispose un nuovo processo d'appello.
Ritornava dunque valida la sentenza di primo grado che vedeva Pacciani colpevole di sette degli otto duplici omicidi attribuiti al Mostro di Firenze, pur tuttavia il contadino non tornò in carcere, rimanendo di fatto libero in attesa di un nuovo giudizio, seppur confinato in casa.


La morte di Pacciani
Il nuovo processo d'appello non ebbe, tuttavia, mai luogo a causa dell'improvvisa morte dell'imputato. Infatti, il pomeriggio del 22 febbraio 1998, mentre era in pieno svolgimento il Processo ai suoi eventuali complici, Pacciani venne ritrovato morto nella sua abitazione di Mercatale con i pantaloni abbassati e il maglione tirato in alto fino al collo.
La relazione del medico legale stilata dal professore Giovanni Marello su incarico del Sostituto Procuratore Paolo Canessa, riportava che il decesso era avvenuto verso le 22.30 del giorno prima (21 febbraio) e che era dovuto a "insufficienza cardiaca con edema polmonare in recente infarto del miocardio".
L'esame tossicologico rivelò nel suo stomaco tracce di un farmaco anti-asmatico, l'Eolus, fortemente controindicato per un cardiopatico infartuato come lui.
La morte di Pacciani gettò nuove ombre sull'intera vicenda. Strane e spesso incontrollate voci presero a circolare su quel misterioso e decisamente intempestivo decesso. La stampa contribuì ad alimentare le dicerie che volevano Pacciani ucciso da ignoti, rendendo difficile in quel tourbillon di chiacchiere distinguere la verità dalle fandonie.
Si venne a sapere che Pacciani, tornato a vivere a Mercatale dopo l'assoluzione in appello e abbandonato anche dalla moglie, viveva barricato in casa come se avesse paura di qualcosa o qualcuno. La sera della sua morte aveva ricevuto la visita di un misterioso erborista e porte e finestre della casa erano state rinvenute spalancate.
Tanto si è elucubrato su questo tale e sospetto erborista. In realtà, a parlarne era stato un pittore bolognese, tale Celso Barbari che, appassionatosi alle vicende giudiziarie del contadino di Mercatale, ne era divenuto amico. Fu lo stesso pittore a riferire per la prima volta nell'aprile del 2001 le seguenti parole: "Sentii Pietro proprio il giorno prima del rinvenimento del suo cadavere. Lo sentii per telefono la sera e lui fu molto frettoloso nel liquidarmi dicendomi che da lui c'era un erborista. Tant'è che ebbi modo di udire Pietro che rivolgendosi a questa persona gli diceva «è quel grullo del pittore», chiudendo la comunicazione. Il giorno dopo in paese ebbi la notizia della sua morte."
Tuttavia dalle intercettazioni telefoniche (il telefono del Pacciani era tenuto sotto rigido controllo) tale telefonata non è mai emersa; questa mancanza ha ovviamente fatto sorgere qualche dubbio sulla veridicità dell'episodio, rendendo il contesto in cui era maturata la morte del Pacciani ancor più incerto e nebuloso.
Si venne, inoltre, a sapere che al momento del ritrovamento del cadavere in casa c'era un forte odore di ammoniaca e che il corpo era rivestito da una specie di grembiule; tale grembiule sarebbe stato in realtà un indumento dalla "ritualità massonica arcaicizzante" utilizzato nelle cerimonie come simbolo di declassamento punitivo di chi lo indossava.
L'idea che in alcuni ambienti stava prendendo piede è che Pacciani fosse stato messo a tacere. In quegli stessi giorni si stava, difatti, celebrando il processo di primo grado ai cosiddetti Compagni di Merende e in aula stavano emergendo alcune rivelazioni da parte del pentito reo-confesso Giancarlo Lotti circa un non meglio precisato dottore che pagava il Pacciani affinché commettesse gli omicidi con il fine di procurarsi i cosiddetti feticci, ove per feticci erano intesi i lembi di vagina e di seno escissi alle ragazze uccise.
Al di là dalla scarsissima attendibilità del Lotti (su questo aspetto ci soffermeremo lungamente in seguito), la possibilità dell'esistenza di fantomatici committenti degli omicidi portava a ritenere non solo molto sospetta la morte del Pacciani, ma addirittura procurata presumibilmente dai cosiddetti mandanti in guanti bianchi. Un omicidio dunque reso necessario dal fatto che Pacciani era divenuto nel frattempo possibile scomodo testimone in vista del nuovo Processo d'appello che lo attendeva, processo in cui - ormai spacciato dopo le confessioni del Lotti - sarebbe stato finalmente pronto a raccontare le sue verità.
Ancora oggi, una discreta fetta di mostrologia (in special modo Narducciana, Giuttariana e Complottista) propende per questa ipotesi.

In realtà non è mai stato trovato alcun riscontro documentale che supportasse la teoria dell'omicidio, né tantomeno l'intervento della massoneria o addirittura dei servizi deviati. A livello storico e giudiziario si tratta di illazioni, non essendo persino mai stata provata la reale esistenza di un secondo livello e di mandanti degli omicidi attribuiti al Mostro.
Al contrario, almeno per quanto riguarda il decesso del Pacciani, le carte sembrerebbero far propendere per una morte naturale.
Lo stesso dottor Marello ha avuto modo di parlare in una recente intervista rilasciata al documentarista Paolo Cochi di una morte perfettamente compatibile con lo stato clinico del deceduto e dunque non particolarmente misteriosa.


11 commenti:

  1. Sono d'accordissimo con te: l'album Skizzen Brunnen rimane l'indizio più pesante a carico di Pacciani. Non sono un paccianista, ma al di là del fatto che di turisti tedeschi in Toscana ne girassero tanti e che quindi non si può escludere un rinvenimento in una discarica, non tutto ciò che è possibile è anche probabile. La probabilità in questo caso rema in modo deciso contro l'innocenza di Pacciani. Tanto più se si considera che sullo Skizzen vi era una gora di umidità perfettamente compatibile con le dimensioni del portasapone, segno che quantomeno era altamente plausibile che i due oggetti fossero stati a contatto per un tempo sufficientemente prolungato. Mi sembra anche un po' superficiale l'obiezione mossa da quanti sostengono che Pacciani, a rigor di logica, si sarebbe potuto impossessare di cose di maggiore valore. Il valore di un oggetto, per un serial killer, credo dipenda dal grado d'interesse che egli nutre per esso e dalla dimensione simbolica che può rappresentare, piuttosto che dal semplice tornaconto economico.

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    1. Ciao, mi sembrano considerazioni sensate le tue.
      Se si vuol essere onesti, il blocco desta qualche oggettiva perplessità. Forse troppo poco - considerando il quadro complessivo - per una condanna dell'imputato, ma abbastanza quanto meno per destare qualche legittimo dubbio.

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  2. Marco Morin era stato anche consulente di Falcone. Nebulosi sono altri

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    1. Buongiorno, la ringrazio per il commento.
      Sì, Morin è stato consulente di Falcone e non solo. Ha condotto perizie sulle armi che uccisero Moro e Dalla Chiesa, è stato consulente per l’omicidio Calabresi, per la strage di Peteano e in generale è stato uno dei migliori periti balistici in Italia.
      Ciò non toglie che la sua brillante carriera sia stata attraversata anche da sospetti, accuse, imputazioni. Cito fra gli altri sottrazione e alterazione di corpi di reato, depistaggio, favoreggiamento nei confronti di neofascisti e peculato (per questi ultimi due reati arrivò una condanna). Fu sospettato di far parte di Ordine Nuovo e di Gladio.
      Insomma, indipendentemente dalla sua competenza e dalla veridicità di taluni sospetti, un passato nebuloso appunto.
      Saluti e a risentirla.

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  3. Un mostro cosi' intelligente si porta a casa sckizzen brunen? a hah ah ah ah ah ha ha ah ma andiamo!!!!!

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  4. Buongiorno, intanto molti complimenti a chi gestisce questo blog per la precisione e chiarezza degli scritti. Riguardo al blocco Skizzen Brunnen che viene definito come l'elemento più pesante a carico di Pacciani, io ricordo la spiegazione dell'avvocato Filastò secondo il quale su tale blocco erano riportate scadenze o fatture (dati poi riscontrati come veri) risalenti a due anni prima l'omicidio dei tedeschi, e che quindi o il Pacciani aveva scritto queste cose a posteriori per crearsi un alibi (ma vista la precisione vorrebbe dire che il Pacciani aveva una memoria prodigiosa) oppure effettivamente il blocco non era dei tedeschi uccisi.
    Mi piacerebbe avere l'opinione dell'autore del blog a tale proposito, grazie.

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    1. Buongiorno, grazie per i complimenti.
      Tutto giusto quanto dici a proposito degli appunti. Ho integrato il paragrafo sullo Skizzen Brunnen proprio parlando queste fantomatiche annotazioni.
      Ciao e grazie ancora.

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  5. 16 omicidi e si porta a casa sckizzen brunnenn ah ah ahah perdonatemi ma qualche cosa non funziona in chi ha indagato

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  6. Gentile Sorrenti, se Morin ha avuto travagli in carriera, gli altri, non ne parliamo. Non è una gara, ma poiché spesso si lavora a screditare, Morin è il meno attaccabile o, se preferisce, il migliore ha la rogna

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    1. Ah guardi, Carmen, su questo pienamente d'accordo. Basti pensare allo stesso generale di cui sopra.
      Grazie e a risentirla.
      LS

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  7. e' inutile che fate i raffinati e gli intellettuali il vero mostro non e' stato nemmeno lontanamente indagato

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